Rivedendo «Le vite degli altri»

Dal sorvegliare al vegliare

 Dal sorvegliare al vegliare  QUO-071
28 marzo 2022

«C’è un uso dell’udito che non è un vero ascolto, ma il suo opposto: l’origliare».

Papa Francesco come al solito discerne e distingue con precisione chirurgica e, nel Messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali per il 2022 aggiunge: «Infatti, una tentazione sempre presente e che oggi, nel tempo del social web, sembra essersi acuita è quella di origliare e spiare, strumentalizzando gli altri per un nostro interesse.

Al contrario, ciò che rende la comunicazione buona e pienamente umana è proprio l’ascolto di chi abbiamo di fronte, faccia a faccia, l’ascolto dell’altro a cui ci accostiamo con apertura leale, fiduciosa e onesta».

Lo spiare oggi, in questi tempi “informatici”, è una tendenza, ma ci sono stati altri periodi (mai conclusi in realtà) in cui questa attività era uno strumento di potere, anzi di guerra.

Nei giorni in cui s’infiamma e s’insanguina di nuovo l’Europa con l’invasione russa in Ucraina, come se le lancette del tempo fossero state messe indietro di decenni, vale la pena ricordare i terribili anni della Guerra Fredda e farlo attraverso la riflessione che scaturisce dalla visione di uno dei film più belli degli ultimi anni: Le vite degli altri, del 2006, del regista tedesco Florian Henckel von Donnersmarck che quell’anno vinse meritatamente l’Oscar come migliore film straniero.

Si tratta di un film che parla di spie, di spionaggio, di uno insomma che passa lunghe giornate (e nottate) proprio a origliare, a osservare le vite degli altri, di chi è semplicemente sospettato di essere un “nemico del regime”.

Il regime è quello della Germania dell’Est, l’anno il 1984, quasi verso la fine del grande impero sovietico. Il capitano Gerd Wiesler (perfettamente interpretato dall’attore Ulrich Mühe) più che un uomo è una macchina: lo vediamo nella prima sequenza mentre conduce implacabilmente un interrogatorio ai danni di un giovane malcapitato, accusato di azioni anti-regime. Wiesler invece è un abile e inflessibile agente della Stasi, la polizia di stato che spia e controlla la vita dei cittadini della Repubblica democratica tedesca, un idealista votato alla causa comunista, servita con diligente scrupolo. Occhi di ghiaccio, movenze rigide e fredde, Wiesler è un agente molto stimato dai suoi superiori i quali gli affidano l’incarico di sorvegliare il drammaturgo Georg Dreyman, il quale apparentemente è un artista non ostile al regime ma che anzi si attiene alle linee del partito.

Eppure è lo stesso ministro della cultura, Bruno Hempf che ordina a Wiesler di sorvegliare la vita e l’abitazione di Dreyman. In realtà (Wiesler non lo sa, lo scoprirà in seguito), il ministro si è invaghito della compagna di Dreyman, l’attrice Christa-Maria Sieland, e vorrebbe trovare prove a carico dell’artista per avere campo libero.

Durante questo lungo e logorante lavoro di sorveglianza (Wiesler si piazza nello scantinato sopra l’appartamento dei due artisti e tramite microspie riesce ad ascoltare tutto quello che accade nell’appartamento di sotto) ecco che avviene l’imprevedibile: la “macchina” si trasforma in essere umano, il ghiaccio che ricopriva la sua esistenza si scioglie e Wiesler diventerà non più la spia ma il complice della coppia a lui “affidata”.

Due i motivi principali, strettamente collegati, di questa svolta: la bellezza e l’amore. Il primo, la bellezza che, come affermava Joseph Ratzinger, ferisce. E la ferita, profonda e irreversibile, è la sorte che tocca all’agente Wiesler, costretto, per lavoro, a vivere non una vita propria ma a vivere la vita degli altri, ad osservarle da vicino, fino a “scottarsi” e a cambiare.

I due infatti sono artisti e frequentano la bellezza, la diffondono attorno a loro. Quando Dreyman, il “sorvegliato speciale”, suonerà al pianoforte un dolente brano musicale e dirà subito dopo queste parole: «Penso a quello che ha detto Lenin a proposito dell’Addolorata di Beethoven: «non devo ascoltare questa musica, altrimenti non concluderò la rivoluzione...». Ma come fa una persona che ha ascoltato, veramente ascoltato, questa musica a rimanere cattivo?», avrà esplicitato il senso della vicenda: la bellezza umana, tutta intrisa di senso del limite e della fragilità, ci tocca, colpendoci nelle viscere sino a ferirci, e così facendo ci apre a qualcosa di più grande, ci spinge ad accogliere l’altro, l’Altro.

Il secondo motivo: l’amore. È proprio l’amore tra Dreyman e la moglie che toccherà il cuore non del tutto pietrificato dell’agente della Stasi che da spia diventerà una sorta di angelo custode della coppia, finendo per abiurare una “fede” (quella verso il regime) incompatibile con l’amore, l’umanità e la compassione.

Da questo punto di vista il film racconta la parabola di un diavolo che diventa angelo, il cammino, sottile, discreto, doloroso, di una conversione che porta il protagonista dal sorvegliare al vegliare.

In questo senso in questa pellicola, parafrasando il famoso titolo di un altro film tedesco, il cielo non è sopra ma sotto Berlino: non c’è un angelo che cala dalle nuvole ma al centro della storia c’è un uomo comune, medio, per certi versi mediocre, una spia, un delatore, che però si rivela pian piano come il singolare deus ex machina che non interviene dall’alto, come nella tragedia greca, ma opera dal basso, chiuso tra le pareti dell’ideologia che vengono abbattute dalla bellezza dell’uomo e dalla sua arte. Tutto questo perché ha smesso di origliare e ha ascoltato, veramente ascoltato.

di Andrea Monda