A colloquio con il cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon

«Basta armi aiutateci a ricostruire la pace»

 «Basta armi aiutateci a ricostruire la pace»  QUO-024
31 gennaio 2022

«Guaritori feriti» che sono «uno strumento di pace». Dodici mesi dopo il golpe militare, i vescovi del Myanmar chiedono questo alla Chiesa e a ogni cristiano del Paese. «Sentiamo il vostro dolore, la vostra sofferenza, la vostra fame. Capiamo la vostra delusione, comprendiamo la vostra resistenza», afferma il cardinale Charles Bo, arcivescovo di Yangon, alla popolazione in una intervista con i media vaticani in vista dell’anniversario di martedì. E aggiunge: «A quelli che credono solo nella resistenza violenta — aggiunge — diciamo: “Ci sono altri mezzi”».

Con il colpo di Stato del 1° febbraio 2021 l’esercito del Myanmar, capeggiato dal generale Min Aung Hlaing, ha deposto il governo della Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi, finita agli arresti assieme ad altri esponenti istituzionali. Il golpe ha scatenato una vasta ondata di proteste e di scioperi che chiedevano il rilascio della leader e il riavvio del processo democratico. Le forze di sicurezza hanno risposto con violenti provvedimenti restrittivi, uccidendo finora quasi 1.500 manifestanti e arrestando più di 11.700 persone contrarie al golpe, che ha messo fine a 10 anni di riforme democratiche, dopo quasi 50 anni di governo militare.

«Una via crucis prolungata: l’Eden
è diventato il Calvario»

Il cardinale Bo, che ha già lanciato numerosi appelli per un ritorno alla normalità civile e per il rispetto dei diritti umani e della libertà, si dice profondamente preoccupato: la gente del Myanmar versa in una situazione disperata, l’oppressione militare è una «via crucis prolungata, dove il giardino dell’Eden diventa il Monte Calvario».

Secondo l’Ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari delle Nazioni Unite (Ocha), si stima che il nuovo scenario abbia ridotto in povertà quasi la metà dei 54 milioni di abitanti del Paese, azzerando le pur notevoli conquiste ottenute a partire dal 2005. Si stima che 14 dei 15 tra Stati e regioni siano oltre la soglia critica della malnutrizione acuta e che 25 milioni di cittadini vivano in povertà, con 14,4 milioni di persone che in vario modo necessitano di aiuto umanitario (6,9 milioni di uomini, 7,5 milioni di donne e 5 milioni di bambini). Prima del golpe del 1° febbraio erano già circa 340 mila gli sfollati interni (Internal Displaced People, Idp); il colpo di Stato ne ha causati circa altri 321 mila. Un numero enorme, specialmente nelle aree di fede cristiana.

«Myanmar, zona di guerra: un’agonia umana che cresce»

Il cardinale Bo, presidente della Conferenza episcopale del Myanmar e della Federazione delle Conferenze episcopali dell’Asia (Fabc), parla di una fase di «caos, confusione, conflitto e agonia umana in vertiginosa crescita”. La gente, soggiunge, vive in un’atmosfera di paura, ansia, è costretta alla fame: «L’intero Myanmar è zona di guerra».

«Sia garantito l’accesso
agli aiuti umanitari»

I vescovi tuttavia, prosegue il porporato 73enne, continuano ad accompagnare la loro gente, «sostenendo l’accesso agli aiuti umanitari e esortando tutte le parti a compiere un cammino di pace e di riconciliazione». L’attacco contro i manifestanti ha riacceso vecchi conflitti tra i gruppi di ribelli armati all’interno del Paese, specialmente nelle regioni a prevalenza cristiana, abitate dai gruppi etnici kachim, chi, karen e kayah. Inoltre sono nati numerosi gruppi di resistenza civile indipendenti contro le atrocità della giunta militare.

«Cristiani sotto attacco,
ma siano
strumenti di pace»

Tra le regioni più colpite dal conflitto figurano gli Stati di Chin, Kayah e Karen. Le chiese che offrono riparo ai profughi in fuga dagli scontri tra l’esercito e i gruppi armati vengono prese di mira, assaltate e bombardate dai militari. Sacerdoti e pastori vengono arrestati e molti civili disarmati, tra cui diversi cristiani, sono stati uccisi. Il cardinale Bo ha condannato gli attacchi ai luoghi di culto e l’uccisione di persone che vi avevano cercato scampo. In particolare, la Cbcm ha denunciato il massacro di almeno 35 civili, tra cui quello di quattro bambini e alcuni operatori umanitari. Il conflitto tra esercito e gruppi armati ha peraltro provocato un grande esodo di sfollati interni e anche oltre i confini del Myanmar. Il timore di esperti dell’Onu è che il Paese possa scivolare nel vortice di una guerra civile vera e propria, con conseguenze ancora più drammatiche.

I cristiani hanno «sofferto pesantemente» a causa del golpe, la loro — osserva con dolore il cardinale Bo — è una «via crucis» che la Chiesa condivide appieno. «Seguiamo — ha detto il porporato — le indicazioni di Papa Francesco» per essere il «guaritore ferito», uno «strumento di pace» che accende «il lume della speranza in mezzo al buio frustrante!».

«La giunta militare rispetti la libertà e i diritti di tutti»

Ai responsabili della giunta militare, il presidente dei vescovi del Myanmar assicura che la Chiesa è impegnata per il bene delle persone e per la soluzione pacifica di tutte le questioni. «Abbiamo spronato — riferisce — al dialogo costantemente, al rilascio dei detenuti, a una maggiore libertà di espressione e al rispetto dei diritti fondamentali di tutti». Con una richiesta urgente: che sia garantito l’accesso umanitario a milioni di persone che stanno patendo questa situazione.

«La comunità internazionale non dimentichi il Myanmar»

Il cardinale Bo stigmatizza pure il fatto che, dopo «l’iniziale periodo d’interesse, il Myanmar sembra essere scomparso dal radar del mondo». La comunità internazionale, è il suo appello, non dimentichi il Myanmar e lo aiuti nella sua lotta per la pacificazione. Un modo per farlo, sostiene, è di eliminare il rifornimento di armi e garantire un maggiore accesso umanitario alle persone in difficoltà.

Gli appelli
di Papa Francesco:
«Cessi la violenza!»

Papa Francesco, che ha visitato il Myanmar a novembre 2017, ha unito molte volte la sua voce al coro di appelli da tutto il mondo che invocavano un esito pacifico per la crisi in Myanmar. Il primo appello risale al 7 febbraio 2021 quando — dopo la preghiera dell’Angelus — ha assicurato alla popolazione vicinanza spirituale, preghiera e solidarietà. «Prego — aveva detto, invitando i fedeli a pregare in silenzio — affinché quanti hanno responsabilità nel Paese si mettano con sincera disponibilità al servizio del bene comune, promuovendo la giustizia sociale e la stabilità nazionale, per una armoniosa convivenza democratica».

In un’altra circostanza, Francesco era rimasto profondamente colpito dalla testimonianza di una religiosa saveriana 45enne, suor Ann Roda Nu Twang, che il 28 febbraio si era accostata a un gruppo di forze di sicurezza armate a Myitkyna — la capitale dello Stato di Kachin – e inginocchiandosi a mani giunte le aveva implorate di non fare del male ai manifestanti pacifici che si erano rifugiati nella clinica in cui lei lavorava.

«Anch’io mi inginocchio sulle strade del Myanmar e dico: cessi la violenza!», aveva esclamato il Papa nell’occasione riferendosi al gesto della religiosa. «Anch’io stendo le mie braccia e dico: prevalga il dialogo!», aveva aggiunto esprimendo dolore per la morte di tanti giovani in particolare. E ancora, nel suo messaggio Urbi et Orbi di Natale, Francesco aveva pregato nuovamente per il Myanmar, dove «intolleranza e violenza — aveva notato — colpiscono non di rado anche la comunità cristiana e i luoghi di culto, e oscurano il volto pacifico della popolazione».

Più di recente, il 10 gennaio scorso, rivolgendosi al Corpo diplomatico in Vaticano, Francesco aveva detto: «Dialogo e fraternità sono quanto mai urgenti per affrontare, con saggezza ed efficacia, la crisi che colpisce ormai da quasi un anno il Myanmar». Le sue «strade, che prima erano luogo di incontro sono ora teatro di scontri, che non risparmiano nemmeno i luoghi di preghiera».

di Robin Gomes