Il magistero

 Il magistero  QUO-286
16 dicembre 2021

Venerdì 10

Negare i diritti dei deboli
è negare
la dignità umana

Il vostro 70° Congresso ha un tema che mi sta molto a cuore: “Gli ultimi. La tutela giuridica dei soggetti deboli”. Nel recente Viaggio a Cipro e in Grecia, visitando i rifugiati nel Campo sull’isola di Lesbo, ho ricordato che «il rispetto delle persone e dei diritti umani, specialmente nel continente che non manca di promuoverli nel mondo, dovrebbe essere salvaguardato».

Eppure, soprusi, violenze, negligenze, omissioni non fanno che aumentare la cultura dello scarto.

A voi giuristi cattolici è chiesto di contribuire a “invertire la rotta”, favorendo la presa di coscienza e il senso di responsabilità. Perché anche gli ultimi, gli indifesi, i soggetti deboli hanno diritti.

È un richiamo intrinseco alla nostra fede. Non è una “moralina” di passaggio.

Mai come in questi tempi, i giuristi cattolici sono chiamati ad affermare e tutelare i diritti dei più deboli, all’interno di un sistema che finge di includere le diversità ma che di fatto esclude chi non ha voce.

I diritti dei lavoratori, dei migranti, dei malati, dei bambini non nati, delle persone in fin di vita e dei più poveri sono negati.

Chi non ha capacità di spendere e consumare sembra non valere nulla.

Ma negare i diritti fondamentali a una vita dignitosa, a cure fisiche, psicologiche e spirituali, a un salario giusto significa negare la dignità umana.

Quanti braccianti sono “usati” per la raccolta delle verdure, pagati miserabilmente e cacciati senza protezione sociale!

Il riconoscimento dei diritti delle persone più deboli non deriva da una concessione governativa. E i giuristi cattolici non chiedono favori, ma proclamano con fermezza quei diritti.

Il giurista cattolico, in qualsiasi ruolo operi, come consulente, avvocato o giudice, [deve] contribuire alla tutela della dignità umana dei deboli.

Il Cardinale Tettamanzi amava ripetere che “i diritti dei deboli non sono diritti deboli”. A voi, il compito di tutelarli.

Vi sia di ispirazione la testimonianza del beato Rosario Livatino.

(All’Unione giuristi cattolici italiani ricevuti nell’Aula della Benedizione)

“Volare alto” per servire la pace

Questo Giubileo, nel centenario della proclamazione della Madonna di Loreto quale «Patrona di tutti gli aeronauti» (Decreto di Benedetto xv , 24 marzo 1920), ricorda che Dio ha creato anche il cielo.

Contemplare il cielo ci apre agli spazi sconfinati. Milioni e milioni, mille milioni di anni sono dietro a noi!

Apritevi a Dio e agli altri, date spazio alla gratuità, al servizio, alla magnanimità, e la vostra vita prenderà il volo.

Dare spazio a questi valori nello svolgimento quotidiano dei vostri compiti, ma prima di tutto nella vostra vita personale, perché ci sia unità tra ciò che siete e ciò che fate.

“Volare alto” significa essere operatori di pace, servire la pace sia nelle missioni in volo sia nei servizi a terra, sia in patria sia fuori, in zone di conflitto.

La Santa Casa di Loreto ci ricorda che, dovunque siamo, abbiamo una casa che custodisce le nostre radici cristiane; e abbiamo una Madre che veglia su di noi.

(All’Aeronautica Militare italiana, ricevuta in San Pietro a conclusione del Giubileo lauretano)

No a
un Natale
finto
e commerciale

Rivolgo il mio saluto alla Delegazione peruviana di Huancavelica, in cui si trova il villaggio di Chopcca, da cui proviene il grande presepio posto nella piazza.

I personaggi rappresentano i popoli delle Ande. Gesù è venuto nella concretezza di un popolo.

Accanto al presepe, c’è il maestoso abete rosso proveniente dai boschi di Andalo, in Trentino. Evoca la rinascita, il dono di Dio che si unisce all’uomo per sempre.

Le luci dell’abete richiamano quella di Gesù, la luce dell’amore che continua a risplendere nelle notti del mondo.

Natale è questo, non lasciamolo inquinare dal consumismo e dall’indifferenza.

I suoi simboli ci riportano alla certezza che ci riempie il cuore di pace, alla gioia per l’Incarnazione, a Dio che abita con noi e ritma di speranza i nostri giorni.

Albero e presepio ci introducono a quel clima tipico del Natale ricco di tenerezza, di condivisione e di intimità familiare.

Non viviamo un Natale finto, commerciale!

Lasciamoci avvolgere dall’atmosfera natalizia che l’arte, le musiche, i canti e le tradizioni fanno scendere nel cuore.

Quanti si recheranno qui in Aula Paolo vi potranno assaporare questa atmosfera anche grazie al presepio realizzato dai giovani della parrocchia di San Bartolomeo a Gallio, diocesi di Padova.

Dio è con noi, si fida di noi e non si stanca mai di perdonare: siamo noi a stancarci di chiedere perdono.

A Natale Dio si rivela come Colui che si abbassa, piccolo e povero, compagno di strada, per servire: per assomigliare a Lui la via è quella dell’abbassamento, del servizio.

Perché sia davvero Natale, non dimentichiamo [che] Dio chiede di prendersi cura dei fratelli e delle sorelle, specialmente dei poveri, deboli, fragili, che la pandemia rischia di emarginare ancora di più.

(Alle delegazioni che hanno donato l’albero
di Natale e il presepio in piazza San Pietro
e nell’Aula Paolo vi )

Sabato 11

Un contributo di fraternità e condivisione
al percorso
sinodale

Saluto tutti i membri del Dicastero, presenti e assenti. Tanti Cardinali nel Dicastero, questo sembra quasi un conclave! Vi ringrazio il lavoro che portate avanti, al servizio della vita consacrata.

Vorrei dire: al servizio del Vangelo, perché voi in particolare servite quel “vangelo” che è la vita consacrata. Compito non facile.

Ripenso allo spirito che animava San Giovanni Paolo ii quando convocò il Sinodo dei Vescovi su questo tema: c’era la consapevolezza di un tempo di travaglio, di esperienze innovatrici non sempre con esiti positivi; c’era, e c’è maggiormente adesso, la realtà del calo numerico; ma soprattutto prevaleva, e prevale, la speranza fondata sulla bellezza del dono che è la vita consacrata.

Questo è decisivo: puntare sul dono di Dio, sulla gratuità della sua chiamata, sulla forza trasformatrice della sua Parola e del suo Spirito.

Con questo atteggiamento incoraggio a partire da una memoria “deuteronomica”, a guardare con fiducia al futuro.

Perché è molto importante ricordare. Quel messaggio del Deuteronomio: “Ricorda Israele, ricorda”. Quella memoria della storia, del proprio istituto. Quella memoria delle radici. Questo fa crescere.

Penso che il vostro servizio si possa riassumere in discernere e accompagnare.

Conosco la molteplicità delle situazioni con le quali avete a che fare. Situazioni spesso complesse, che richiedono di essere studiate a fondo in dialogo con i Superiori degli istituti e con i Pastori.

È il lavoro serio e paziente del discernimento, che non può compiersi se non nell’orizzonte della fede e della preghiera.

Accompagnare specie le comunità di recente fondazione, che sono anche più esposte al rischio dell’autoreferenzialità.

C’è un criterio essenziale di discernimento: la capacità di una comunità, di un istituto di «integrarsi nella vita del Popolo Santo di Dio per il bene di tutti».

La vita consacrata nasce nella Chiesa, cresce e può dare frutti evangelici solo nella Chiesa, nella comunione vivente del Popolo fedele di Dio.

Per questo i fedeli hanno il diritto di essere avvertiti dai Pastori sull’autenticità dei carismi e sull’affidabilità dei fondatori.

Nel discernere e nell’accompagnare ci sono attenzioni da tenere sempre vive.

Attenzione
ai fondatori

che a volte tendono ad essere autoreferenziali, a sentirsi gli unici depositari o interpreti del carisma, come se fossero al di sopra della Chiesa.

Attenzione alla pastorale vocazionale e alla formazione dei candidati.

Attenzione a come si esercita l’autorità, con particolare riguardo alla separazione tra foro interno e foro esterno — tema che a me preoccupa tanto —, alla durata dei mandati e all’accumulo dei poteri.

Attenzione agli abusi di potere. Su questo ho avuto in mano un libro di recente pubblicazione, di Salvatore Cernuzio.

Circa il discernimento in vista dell’approvazione di nuovi istituti, di nuove forme di vita consacrata o di nuove comunità, invito alla collaborazione con i vescovi.

È responsabilità del Pastore accompagnare e accettare questo servizio.

Questa sinergia tra Dicastero e Vescovi permette anche di evitare — come chiede il Concilio — che sorgano inopportunamente istituti privi di sufficiente motivazione o adeguato vigore, forse con buona volontà, ma manca qualcosa.

L’ascolto reciproco tra gli uffici della Santa Sede e i Pastori, come pure i Superiori Generali, è un aspetto essenziale del percorso sinodale che abbiamo iniziato.

I consacrati e le consacrate sono chiamati a offrire un contributo importante in questo processo: un contributo per il quale essi attingono dalla familiarità con la prassi di fraternità e di condivisione nella vita comunitaria e nell’impegno apostolico.

Quando Dio vuole annientare una persona, un popolo o un’istituzione, lo fa rimanere — dice Malachia — “senza radici e senza germogli”.

Se noi non abbiamo questa memoria deuteronomica e non abbiamo il coraggio di prendere da lì il succo per crescere, non avremo neppure germogli. Una maledizione forte.

(Ai partecipanti alla plenaria della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società
di vita apostolica ricevuti nella Sala Clementina)

Domenica 12

La vita ha
un compito per noi

Il Vangelo oggi presenta vari gruppi di persone toccati dalla predicazione di Giovanni Battista. Allora gli chiedono: «Che cosa dobbiamo fare»?

Pensiamo che una persona cara stia venendo a trovarci. Noi la aspettiamo con gioia. Per accoglierla come puliremo la casa, prepareremo il pranzo migliore, magari un regalo... ci daremo da fare.

Così è con il Signore, la gioia per la sua venuta ci fa dire: cosa fare della mia vita? A cosa sono chiamato? Cosa mi realizza?

Il Vangelo ci ricorda [che] la vita ha un compito per noi... non è senza senso, non è affidata al caso.

È un dono che il Signore ci consegna dicendoci: scopri chi sei, e datti da fare!

Ciascuno è una missione da realizzare. Allora, non abbiamo paura di chiedere al Signore: che cosa devo fare?

Cosa è bene fare per me e per i fratelli? Come posso contribuire al bene della Chiesa, della società?

Il Tempo di Avvento serve a fermarsi e chiedersi come preparare il Natale.

Siamo indaffarati da tanti preparativi, regali e cose che passano, ma chiediamoci che cosa fare per Gesù e per gli altri!

Nel Vangelo seguono le risposte di Giovanni Battista, che sono diverse per ogni gruppo.

Raccomanda a chi ha due tuniche di condividere con chi non ne ha; ai pubblicani, che riscuotono le tasse, dice: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato»; e ai soldati: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno».

A ciascuno è rivolta una parola specifica, che riguarda la situazione reale della sua vita.

Questo insegna [che] la fede si incarna nella vita concreta. Non è astratta... una teoria generalizzata. Tocca la carne e trasforma la vita di ciascuno.

Mentre siamo vicini al Natale... prendiamo un impegno concreto, anche piccolo, che si adatti alla nostra situazione di vita, e portiamolo avanti.

Ad esempio telefonare a quella persona sola, visitare quell’anziano o quel malato, servire un povero, un bisognoso.

Forse ho un perdono da chiedere o da dare, una situazione da chiarire, un debito da saldare. Ho trascurato la preghiera e dopo tanto tempo è ora di accostarmi al perdono del Signore.

Per le vittime del tornado

Prego per le vittime del tornado che ha colpito il Kentucky e altre zone degli Stati Uniti d’America.

(Angelus in piazza San Pietro)

Mercoledì 15

L’arte crea
fratellanza

Il Natale ci invita a fissare lo sguardo sulla tenerezza di Dio.

Nel presepe vediamo l’amore di una madre che abbraccia il bimbo appena nato, l’amore di un padre che custodisce e difende la propria famiglia; pastori che si commuovono davanti a un neonato, angeli che fanno festa per la venuta del Signore.

San Francesco d’Assisi, con il suo presepe vivente a Greccio, volle rappresentare quanto accaduto nella grotta di Betlemme, perché si potesse contemplare e adorare.

Lo sbocciare della vita è sempre motivo di gioia che aiuta a superare le sofferenze.

Il sorriso di un bimbo scioglie anche i cuori più induriti.

Offrite le vostre qualità artistiche per sostenere progetti educativi, destinati soprattutto a bambini e ragazzi in due Paesi che versano in condizioni assai precarie.

Nel Libano lo portano avanti i salesiani. Ad Haiti Scholas Occurentes. La vostra musica, il canto aiutano ad aprire il cuore per non dimenticare chi soffre e fare gesti concreti di condivisione, che portano gioia a tante famiglie desiderose di dare un futuro ai propri figli attraverso l’educazione.

Nella grotta di Betlemme si è accesa la speranza per l’umanità.

La pandemia ha aggravato il divario educativo per milioni di bambini e adolescenti esclusi da ogni attività formativa.

Ci sono altre “pandemie” che impediscono il diffondersi della cultura del dialogo e dell’inclusione. La luce del Natale ci spinge alla solidarietà.

Voi subito create fratellanza; davanti all’arte non ci sono amici e nemici, siamo tutti uguali, amici, tutti fratelli.

È un linguaggio fecondo. Investire nell’educazione significa far scoprire e apprezzare i valori più importanti e aiutare i ragazzi e i giovani ad avere il coraggio di guardare con speranza al futuro.

Nell’educazione abita il seme della speranza: speranza di pace e di giustizia, di bellezza, di bontà, di armonia sociale.

(A organizzatori e artisti del Concerto di Natale
in Vaticano)

Il silenzio
di Giuseppe

I Vangeli non riportano nessuna parola di Giuseppe di Nazaret, non ha mai parlato. Ciò non significa che fosse taciturno.

Nella misura che Gesù — la vita spirituale — cresce, le parole diminuiscono. Il “pappagallismo”, parlare come pappagalli, continuamente, diminuisce un po’.

Giuseppe con il silenzio invita a lasciare spazio alla Presenza della Parola fatta carne, a Gesù.

Il suo non è mutismo; è un silenzio pieno di ascolto, operoso, e fa emergere la sua grande interiorità.

Gesù è cresciuto a questa “scuola”, nella casa di Nazaret. E non meraviglia che Lui stesso cercherà spazi di silenzio e inviterà i discepoli a fare tale esperienza. 

Come sarebbe bello se ognuno di noi, sull’esempio di Giuseppe, riuscisse a recuperare questa dimensione contemplativa della vita spalancata dal silenzio.

Ma sappiamo che non è facile: il silenzio un po’ ci spaventa, perché ci chiede di incontrare la parte più vera di noi.

Tanta gente ha paura del silenzio, deve parlare, o ascoltare, radio, televisione, ma il silenzio non può accettarlo.

Impariamo a coltivare spazi di silenzio, in cui possa emergere un’altra Parola: quella dello Spirito che abita in noi e porta Gesù. Non è facile riconoscere questa Voce, spesso confusa a mille voci di preoccupazioni, tentazioni, desideri, speranze.

Ma senza la pratica del silenzio, può ammalarsi anche il nostro parlare... e invece di far splendere la verità, diventa un’arma pericolosa: adulazione, vanagloria, bugia, maldicenza, calunnia.

Come ricorda il Libro del Siracide, «ne uccide più la lingua che la spada». 

Gesù ha detto: chi parla male del fratello, chi calunnia, è omicida. 

Pensiamo alle volte che abbiamo ucciso con la lingua, ci vergogneremmo! Ma ci farà bene.

Dobbiamo imparare da Giuseppe a coltivare quello spazio di interiorità in cui diamo la possibilità allo Spirito di rigenerarci, di consolarci, di correggerci.

Tante volte stiamo facendo un lavoro e quando finiamo subito cerchiamo il telefonino per fare un’altra cosa. Questo fa scivolare nella superficialità.

La profondità del cuore cresce col silenzio. E il beneficio del cuore che ne avremo guarirà anche la nostra lingua, le nostre parole e soprattutto le nostre scelte.

Infatti Giuseppe ha unito al silenzio l’azione. Non ha parlato, ma ha fatto e ha mostrato quello che Gesù disse ai discepoli: «Non chi dice Signore, Signore entrerà nel regno, ma chi fa la volontà del Padre mio».

Noi abbiamo il ricordo di quella canzone “Parole, parole, parole…” e niente di sostanziale. Silenzio, parlare giusto, qualche volta mordersi un po’ la lingua, invece di dire stupidaggini.

(Udienza generale nell’Aula Paolo vi )