Il magistero

Sono venuto per guardarvi negli occhi

09 dicembre 2021

Giovedì 2

Per un mondo senza muri

Vedo la ricchezza della vostra diversità. È una bella “macedonia”!

La Chiesa maronita è approdata a più riprese nell’isola e attraversando molte prove ha perseverato nella fede.

Quando penso al Libano provo preoccupazione per la sofferenza di un popolo provato da violenza e dolore.

Anche la Chiesa latina, qui presente da millenni, ha visto crescere l’entusiasmo della fede. Oggi, grazie a tanti fratelli e sorelle migranti, si presenta “multicolore”.

Questo volto rispecchia il ruolo di Cipro nel continente: mosaico di incontri.

Non ci sono e non ci siano muri nella Chiesa cattolica.

Nessuno è stato chiamato per proselitismo di predicatore.

La Chiesa cattolica è una casa comune, è la convivenza delle diversità... e, in quella diversità, la ricchezza dell’unità.

Pazienza

Barnaba viene scelto dalla Chiesa di Gerusalemme — Chiesa madre — per visitare la nuova comunità di Antiochia.

Viene inviato... quasi come un esploratore. Vi trova persone che provengono da un’altra sensibilità religiosa; che hanno una fede piena di entusiasmo, ma ancora fragile.

Sa aspettare. È la pazienza di entrare nella vita di persone fino ad allora sconosciute; di accogliere la novità senza giudicarla; di “studiare” altre tradizioni.

La pazienza dell’accompagnamento: non schiaccia con atteggiamenti rigorosi, inflessibili, o con richieste esigenti. No. Prende per mano, dialoga.

Abbiamo bisogno di una Chiesa che non si lascia turbare dai cambiamenti, ma accoglie serenamente la novità.

In quest’isola è prezioso il lavoro che svolgete nell’accogliere i nuovi fratelli e sorelle che giungono da altre rive.

Siete chiamati a essere segni credibili della pazienza di Dio che non lascia mai nessuno fuori casa.

La Chiesa in Cipro ha braccia aperte. È un messaggio importante in tutta Europa: non serve essere impulsivi, aggressivi, nostalgici o lamentosi. Occorre ricominciare a prendere in mano le Beatitudini.

L’anno scorso un gruppo di giovani che fanno spettacoli pop music, hanno voluto fare la parabola del figlio prodigo.

Quando il figlio va da un amico dice: “Io così non posso andare avanti. Voglio tornare a casa, ma ho paura che papà mi chiuda la porta in faccia” — “Ma il tuo papà è buono!” — “Sì, ma ... c’è mio fratello”.

Verso la fine l’amico gli dice: “scrivi al tuo papà e di’ che metta un fazzoletto sulla finestra più alta, così ti dirà prima se ti accoglierà o ti caccerà”.

Nell’altro atto, il figlio è in cammino. E quando vede la casa del papà: era piena di fazzoletti bianchi!

Questo è Dio per noi. Non si stanca di perdonare.

La Chiesa non vuole uniformare ma integrare tutte le culture, le psicologie, con pazienza materna. È quello che desideriamo fare nell’itinerario sinodale.

Fraternità

Barnaba e Paolo, come fratelli, viaggiano insieme per annunciare il Vangelo.

Poi, come succede nella vita, hanno un dissidio e si separano. È la fraternità nella Chiesa: si può discutere — e conviene farlo — perché è brutto non discutere mai.

Quando c’è questa pace troppo rigorista, non è di Dio.

In una famiglia i fratelli scambiano i punti di vista.

Si possono dire le cose in faccia con franchezza; e non dirle da dietro.

Siete immersi nel Mediterraneo: un mare che ha cullato tante civiltà, dal quale ancora oggi sbarcano persone.

Con la vostra fraternità potete ricordare all’Europa che occorre lavorare insieme, superare le divisioni, abbattere i muri.

(Incontro con clero e laici impegnati di Cipro
nella cattedrale maronita a Nicosia)

Venerdì 3

Non
rassegnarsi
alle divisioni

Abbiamo una comune origine apostolica: Paolo attraversò Cipro e in seguito giunse a Roma. Discendiamo dal medesimo ardore e un’unica via ci collega, quella del Vangelo.

Mi piace vederci in cammino sulla stessa strada, in cerca di una sempre maggiore fraternità e della piena unità.

In questo lembo di Terra Santa che diffonde la grazia di quei Luoghi nel Mediterraneo, viene naturale ripensare a tante pagine e figure bibliche.

«Giuseppe, soprannominato dagli Apostoli Barnaba». Lo veneriamo dunque attraverso il suo soprannome... significa “figlio della consolazione” e “figlio dell’esortazione”..., caratteristiche indispensabili per l’annuncio.

Ogni vera consolazione, infatti, non può rimanere intimistica, ma deve tradursi in esortazione, orientare la libertà al bene.

Prima di dire qualcosa, occorre ascoltare, lasciarsi interrogare, condividere. Il Vangelo si trasmette per comunione.

Come Cattolici, sentiamo il bisogno di camminare più intensamente con voi, che attraverso l’esperienza della vostra sinodalità potete davvero aiutarci.

Auspico che aumentino le possibilità di conoscerci meglio, di abbattere preconcetti e di porci in docile ascolto delle rispettive esperienze di fede.

Desidero assicurarvi la preghiera e la vicinanza mia e della Chiesa cattolica, nei problemi più dolorosi che vi angosciano.

Non lasciamoci paralizzare dal timore di aprirci, non assecondiamo quella “inconciliabilità delle differenze” che non trova riscontro nel Vangelo!

Non permettiamo che le tradizioni, al plurale e con la “t” minuscola, tendano a prevalere sulla Tradizione, al singolare e con la “T” maiuscola.

Essa ci esorta a imitare Barnaba, a lasciare quanto, anche buono, può compromettere la pienezza della comunione, il primato della carità e la necessità dell’unità.

Lo Spirito Santo invita a non rassegnarci di fronte alle divisioni del passato.

Se lasciamo da parte teorie astratte e lavoriamo fianco a fianco nella carità, nell’educazione e nella promozione della dignità umana, la comunione maturerà da sé.

Coltiviamo la comunione apostolica! È un frutto buono quanto accade qui presso la chiesa della “Tuttasanta della Città d’oro”. Il tempio dedicato alla Panaghia Chrysopolitissa è oggi luogo di culto per varie confessioni cristiane, amato dalla popolazione e scelto per la celebrazione dei matrimoni.

È un segno di comunione di fede e di vita sotto lo sguardo della Santa Madre di Dio. All’interno è inoltre custodita la colonna dove, secondo la tradizione, Paolo subì trentanove colpi di frusta.

Secoli di distanze ci hanno fatto assimilare, pregiudizi ostili, basati spesso su informazioni divulgate da una letteratura aggressiva e polemica.

Ma ciò distorce la via di Dio, che è protesa alla concordia e all’unità.

(Con il Santo sinodo della Chiesa ortodossa
di Cipro nella cattedrale di Nicosia)

Cristiani che accendono luci di speranza nel buio

Due ciechi, mentre Gesù passa, gli gridano la loro miseria e la loro speranza... dunque vedono ciò che più conta.

Ascoltano la sua voce e seguono i suoi passi. Si fidano di Gesù. Percepiscono che Egli è la luce che sconfigge le tenebre.

Anche noi siamo viandanti immersi nelle oscurità della vita.

La prima cosa da fare è andare da Gesù... però facciamo resistenza a incamminarci; preferiamo rimanere chiusi in noi stessi, piangerci addosso, accettando la cattiva compagnia della tristezza. Diamogli la possibilità di guarirci il cuore.

I ciechi sono due. Si trovano insieme sulla strada... condividono il dolore.

Il testo è sempre al plurale, perché entrambi chiedono la guarigione; non ciascuno per sé stesso. Usano il “noi”, non dicono “io”.

Ecco il segno della vita cristiana: pensare, parlare, agire come un “noi”, uscendo dall’individualismo.

Ciascuno di noi è cieco a causa del peccato, che impedisce di “vedere” Dio come Padre e gli altri come fratelli.

Non si può affrontare il buio da soli. Se portiamo da soli le cecità interiori, veniamo sopraffatti.

Abbiamo bisogno di metterci l’uno accanto all’altro, di condividere le ferite, di affrontare insieme la strada.

Se restiamo divisi, se ciascuno pensa solo a sé o al suo gruppo, se non ci stringiamo insieme, non dialoghiamo, non camminiamo uniti, non possiamo guarire.

Dopo essere stati guariti insieme da Gesù, i due iniziano a diffondere la notizia.

Gesù aveva raccomandato di non dire niente, ma fanno l’esatto contrario.

Però, non è loro intenzione disobbedire; non riescono a contenere l’entusiasmo.

E qui c’è la gioia del Vangelo che libera dal rischio di una fede intimista, seriosa, lamentosa, e immette nel dinamismo della testimonianza.

Usciamo a portare la luce che abbiamo ricevuto, a illuminare la notte che spesso ci circonda!

C’è bisogno di cristiani illuminati ma soprattutto luminosi, che con gesti e parole di consolazione accendano luci di speranza nel buio.

Cristiani che seminino germogli di Vangelo nei campi aridi della quotidianità, che portino carezze nelle solitudini della sofferenza e della povertà.

(Omelia nella messa al “G sp Stadium”
di Nicosia)

Il filo spinato dell’odio
davanti a chi chiede libertà e pane

Come Mariamie, della Repubblica Democratica del Congo, Dio sogna un mondo di pace, in cui i suoi figli vivono come fratelli e sorelle. Siamo noi a non volerlo.

Thamara, dello Sri Lanka, dici: “mi viene chiesto chi sono”: la brutalità della migrazione mette in gioco la propria identità. Non siamo numeri, non siamo individui da catalogare; siamo “fratelli”, “amici”, “credenti”, “prossimi” gli uni degli altri.

Ma quando gli interessi di gruppo o politici, anche delle Nazioni, spingono, tanti di noi si trovano messi da parte.

Quando tu, Maccolins, che vieni dal Camerun, dici che sei stato “ferito dall’odio”, ci ricordi che l’odio ha inquinato anche le nostre relazioni tra cristiani.

E questo, lascia un segno profondo, che dura a lungo. È un veleno... da cui è difficile disintossicarsi... è una mentalità distorta, che ci fa vedere come avversari, rivali, oggetti da vendere o da sfruttare.

Quando tu, Rozh, che vieni dall’Iraq, dici che sei “una persona in viaggio”, ci ricordi che anche noi siamo in cammino.

Su questa strada, che è lunga ed è fatta di salite e discese, non devono farci paura le differenze. Piuttosto devono farci paura le chiusure, i pregiudizi.

Ricostruiscono quel muro di separazione che Cristo ha abbattuto.

Lui ci viene incontro con il volto del fratello emarginato e scartato, disprezzato, respinto, ingabbiato, sfruttato.

Ma anche del migrante che è in viaggio verso una speranza.

Dio ci parla attraverso i vostri sogni. Il pericolo è che tante volte preferiamo dormire e non sognare.

È facile guardare da un’altra parte. E ci siamo abituati a quella cultura dell’indifferenza e addormentarci tranquilli.

Possa quest’isola, segnata da una dolorosa divisione — sto guardando il muro [attraverso il portale aperto della chiesa] — diventare laboratorio di fraternità.

Quest’isola è generosa, ma non può fare tutto, perché il numero di gente che arriva è superiore alle sue possibilità.

La vicinanza geografica facilita, ma dobbiamo capire i limiti a cui i governanti sono legati.

La nostra dignità non si vende, non si affitta, non va perduta.

La fronte alta: io sono degno figlio di Dio.

Quanti sono rimasti per strada? Quanti disperati non sono potuti arrivare?

Questo mare è diventato un grande cimitero. Guardando voi, guardo le sofferenze del cammino, tanti che sono stati rapiti, venduti, sfruttati…, ancora sono in cammino, non sappiamo dove.

È la storia di una schiavitù universale.

Noi guardiamo cosa succede, e il peggio è che ci stiamo abituando. Ma questo è una malattia grave, e non c’è antibiotico!

Penso a tanti respinti finiti nei lager, dove le donne sono vendute, gli uomini torturati, schiavizzati.

Quando leggiamo le storie dei lager del secolo scorso, quelli dei nazisti, quelli di Stalin, diciamo: “ma come mai è successo questo?”.

Sta succedendo oggi, nelle coste vicine! Posti di schiavitù. Ho guardato alcune testimonianze filmate: posti di tortura, di vendita di gente.

È responsabilità mia aiutare ad aprire gli occhi. La migrazione forzata non è un’abitudine quasi turistica!

Il peccato che abbiamo dentro ci spinge a pensare: “Mah, povera gente”... E cancelliamo tutto.

È la guerra di questo momento, è la sofferenza di fratelli e sorelle che noi non possiamo tacere.

Coloro che hanno dato tutto quello che avevano per salire su un barcone, di notte, e poi.. respinti per finire nei lager.

Questa è la storia di questa civiltà sviluppata, che noi chiamiamo Occidente.

E poi i fili spinati. Uno lo vedo: questa è una guerra di odio che divide un Paese.

Ma in altre parti si mettono per non lasciare entrare il rifugiato, che viene a chiedere libertà, pane, aiuto, fratellanza, che sta fuggendo dall’odio e si trova davanti un odio che si chiama filo spinato.

(Preghiera ecumenica con i migranti nella chiesa parrocchiale di Santa Croce a Nicosia)

Sabato 4

Perdono a Dio e ai fratelli
per gli errori commessi da tanti cattolici

Ci siamo incontrati cinque anni fa a Lesvos... ora ci ritroviamo per condividere la gioia della fraternità e guardare al Mediterraneo non solo come luogo che preoccupa e divide, ma anche come mare che unisce.

Quali sono le nostre radici comuni che hanno attraversato i secoli? Sono quelle apostoliche.

In seguito, purtroppo, siamo cresciuti lontani. Veleni mondani ci hanno contaminato, la zizzania del sospetto ha aumentato la distanza e abbiamo smesso di coltivare la comunione.

Con vergogna — lo riconosco per la Chiesa cattolica — azioni che niente hanno a che vedere con Gesù, improntate piuttosto a sete di guadagno e potere, hanno fatto appassire la comunione.

La storia ha il suo peso e oggi qui sento il bisogno di rinnovare la richiesta di perdono a Dio e ai fratelli per gli errori commessi da tanti cattolici.

È però di gran conforto la certezza che nonostante le storture del tempo, la pianta di Dio cresce e porta frutti.

Non temiamoci dunque, ma aiutiamoci ad adorare Dio e a servire il prossimo, senza fare proselitismo e rispettando pienamente la libertà altrui.

Prego affinché lo Spirito di carità vinca le nostre resistenze.

Tanti passi sono stati compiuti per venirci incontro. Invochiamo lo Spirito, perché ci aiuti a fondare la comunione non su calcoli, strategie e convenienze, ma sull’unico modello: la Santissima Trinità.

Lo stesso Spirito, infine, ci spinge a prenderci cura dei più deboli e dei più poveri, e a porre la loro causa all’attenzione del mondo.

Sviluppiamo insieme forme di cooperazione nella carità, apriamoci e collaboriamo su questioni di carattere etico e sociale. Venga su di noi lo Spirito del Crocifisso Risorto... ci aiuti a non restare paralizzati dalle negatività e dai pregiudizi.

Allora le tribolazioni del passato lasceranno spazio alle consolazioni del presente e saremo confortati dai tesori di grazia che riscopriremo nei fratelli.

Abbiamo appena avviato, come cattolici, un itinerario per approfondire la sinodalità e sentiamo di avere tanto da apprendere da voi.

(Incontro con Sua Beatitudine Ieronymos ii
nella “Sala del Trono” dell’Arcivescovado ortodosso di Grecia ad Atene
)

Essere
minoritari non vuol dire
essere
insignificanti

Siamo un po’ tutti figli e debitori del vostro Paese: senza la poesia, la letteratura, la filosofia e l’arte che si sono sviluppate qui, non potremmo conoscere tante sfaccettature dell’esistenza umana, né soddisfare molte domande interiori sulla vita, sull’amore, sul dolore e sulla morte.

Mentre Paolo predicava, alcuni filosofi iniziano a chiedersi che cosa voglia insegnare questo «ciarlatano».

Lo chiamano così: uno che inventa cose approfittando della buona fede di chi lo ascolta.

Perciò lo conducono all’Areopago. Non gli aprono il sipario di un palcoscenico. Al contrario, lo portano lì per interrogarlo.

Queste circostanze sono importanti anche per noi, oggi. L’Apostolo si trova all’angolo. Non sta vivendo un momento trionfante.

In tanti momenti del nostro cammino, anche noi avvertiamo la fatica e talvolta la frustrazione di essere una piccola comunità, o una Chiesa con poche forze in un contesto non sempre favorevole.

Meditate la storia di Paolo ad Atene. Era solo, in minoranza e con scarse probabilità di successo. Ma non si è lasciato vincere dallo scoraggiamento.

L’essere Chiesa piccola ci rende segno eloquente del Vangelo, del Dio annunciato da Gesù che sceglie i piccoli e i poveri, che cambia la storia con le gesta semplici degli umili.

A noi non è richiesto lo spirito della conquista e della vittoria, la magnificenza dei grandi numeri. È la tentazione del trionfalismo.

A noi è chiesto di prendere spunto dal granello di senape, che è infimo, ma umilmente e lentamente cresce.

A noi è chiesto di essere lievito, che fermenta nel nascondimento paziente e silenzioso. Benedite la piccolezza e accoglietela. Essere minoritari — e nel mondo intero la Chiesa è minoritaria — non vuol dire essere insignificanti.

Secondo atteggiamento è l’accoglienza... disposizione interiore necessaria per l’evangelizzazione: non voler occupare lo spazio dell’altro, ma seminare la buona notizia nel terreno della sua esistenza, imparando a riconoscere i semi che Dio ha già posto nel suo cuore.

Evangelizzare non è riempire un contenitore vuoto, è portare alla luce quello che Dio ha già iniziato.

Anche se le strade di Atene erano piene di idoli, accoglie il desiderio di Dio nascosto nel cuore di quelle persone e con gentilezza vuole donare loro lo stupore della fede.

Il suo stile non è impositivo, ma propositivo. Non si fonda sul proselitismo, ma sulla mitezza di Gesù.

A proposito della visita di Paolo all’Areopago, Benedetto xvi disse che a noi devono stare molto a cuore le persone agnostiche o atee.

Anche a noi oggi è richiesto l’atteggiamento dell’accoglienza, lo stile dell’ospitalità, un cuore animato dal desiderio di creare comunione tra le differenze umane, culturali o religiose.

La sfida è elaborare la passione per l’insieme, che ci conduca ad ascoltarci reciprocamente, a sognare e lavorare insieme, a coltivare la “mistica” della fraternità.

La storia passata rimane ancora una ferita aperta sulla strada di questo dialogo accogliente, ma abbracciamo con coraggio la sfida di oggi!

(Incontro con il clero e i laici nella cattedrale di San Dionigi ad Atene)

Domenica 5

Seminatori
di speranza nei deserti
del mondo

Questa seconda Domenica di Avvento presenta la figura di San Giovanni Battista e ne sottolinea due aspetti: il luogo dove si trova, il deserto, e il contenuto del suo messaggio, la conversione.

Queste parole ci riguardano direttamente. Accogliamole entrambe.

Nella vita di una persona o di un popolo non mancano momenti in cui si ha l’impressione di trovarsi in un deserto.

Ed ecco che proprio lì si fa presente il Signore, il quale spesso non viene accolto da chi si sente riuscito, ma da chi sente di non farcela.

Non c’è luogo che Dio non voglia visitare. E non possiamo che provare gioia nel vederlo scegliere il deserto, per raggiungerci nella nostra piccolezza che ama e nella nostra aridità che vuole dissetare!

Non temete la piccolezza, perché la questione non è essere piccoli e pochi, ma aprirsi a Dio e agli altri.

E non temete nemmeno le aridità, perché Dio lì viene a visitarci.

Convertirsi significa non dare ascolto a ciò che affossa la speranza, a chi ripete che nella vita non cambierà mai nulla.

È rifiutare di credere che siamo destinati ad affondare nelle sabbie mobili della mediocrità.

È non arrendersi ai fantasmi interiori, che si presentano soprattutto nei momenti di prova per scoraggiarci e dirci che non ce la faremo, che tutto va male e che diventare santi non fa per noi.

È la speranza che rianima la fede e riaccende la carità.

È di speranza che i deserti del mondo sono assetati oggi.

(Omelia alla messa celebrata nella “Megaron Concert Hall” di Atene)