La buona Notizia Il Vangelo della xxv Domenica del tempo ordinario (Marco 9, 30-37)

Tre silenzi

14 settembre 2021

Le parole di questo brano evangelico intrecciano tre silenzi molto diversi tra loro. All’inizio c’è il silenzio richiesto da Gesù ai suoi discepoli. Il maestro non vuole che si venga a sapere del loro cammino in Galilea, perché spera di trovare l’intimità necessaria alla verità della loro missione, perturbata dalla diffidenza di Nazaret, dalle incomprensioni delle autorità religiose e dall’ostilità crescente di uomini pronti a tutto. È arrivato il momento di smetterla con i sogni sbagliati: l’ombra della croce si è fatta densa. C’è giusto il tempo per tentare di capirne il senso alla luce di ciò che Gesù ha provato, detto e fatto.

Nello spazio di questo silenzio si dà un segreto impenetrabile che Gesù prova continuamente a spartire: il suo destino si chiuderà nella violenza ma si riaprirà dopo tre giorni, nella risurrezione. Questo tragico e paradossale annuncio provoca il secondo silenzio. È il silenzio dell’incomprensione, della resistenza e della paura. Un silenzio forse giustificato e comunque molto umano. Infatti, chi mai potrebbe trovare un senso a una Pasqua che passa per la storia di un messia sofferente e sconfitto? Chi mai non proverebbe in sé una forte riluttanza verso un Dio che sembra essere venuto al mondo per morire in croce? Chi mai dopo una simile profezia oserebbe fare domande, con il rischio di sentire ciò di cui ha orrore? Così il tabù si materializza e il cammino riprende lontano dall’abisso. Lo sguardo va altrove e la parola si lascia distrarre dagli eventi che hanno già iniziato ad accadere. In una tranquilla casa di Cafarnao, però, Gesù interrompe il vagare dei pensieri più ribelli dei suoi discepoli, chiedendo conto delle parole scambiate lungo la via. Affiora così il terzo silenzio del brano, che stavolta ha il sapore della colpevolezza: i discepoli hanno discusso della loro grandezza e hanno attivato un registro di competizione spirituale. Tacciono perché non hanno alcuna intenzione di farlo sapere al loro maestro.

Rispondendo con un nuovo silenzio, essi confessano ancora una volta un’immagine distorta di Dio: il loro è un Dio da temere con ansia quando si è fatto qualcosa di male, ma è anche un Dio troppo sensibile alle buone opere, tanto da consentire di vantarle come credito spirituale. È la “tentazione del bene”, quella che nutre l’orgoglio della buona volontà e che giustifica l’arroganza del desiderio rivolto al meglio.

Gesù non si perde d’animo: si siede e ricomincia a parlare di un Dio vulnerabile come un bambino messo al mondo al di fuori delle regole; un Dio ultimo e servo, riflesso in ogni essere emarginato della terra che riceve finalmente attenzione e cura; un Dio da avvicinare con quella sapienza della perdita, testimoniata dalla donna che ruppe un intero vaso di profumo per ungere il Cristo che andava a morire per amore del mondo. Ricordarsi anche di lei — come invitò a fare lo stesso Gesù — significa riscoprire un Dio dell’amore, che si rivela vulnerabile senza per questo essere fragile.

di Lucia Vantini