LA BUONA NOTIZIA
Il Vangelo della XVI Domenica del tempo ordinario (Marco 6, 30-34)

Una tenera liturgia
di cura e premura

 Una tenera liturgia di cura e premura  QUO-156
13 luglio 2021

Tornati dalla missione, gli apostoli hanno una sola meta: Gesù. È il Maestro il loro punto di approdo, le «acque tranquille» (Sal 23, 2) dopo una perigliosa navigazione, il «pascolo» dove fare ritorno (cfr. Ger 23, 3), il focolare domestico presso il quale radunarsi per rileggere quanto vissuto. La persona di Gesù è il polo d’attrazione per i discepoli desiderosi di riferirgli la loro prima esperienza missionaria, bramosi di descrivere minuziosamente le tappe di uno stage che li ha visti pronunciare parole performative, capaci di realizzarsi trasfigurando le vite di molti, e compiere gesti simbolici, capaci di aprire tanti al desiderio di Dio Padre.

Gli apostoli che hanno predicato la conversione, scacciato i demoni, unto corpi trafitti dalla sofferenza e guarito diversi malati (cfr. Mc 6, 12-13), vanno dritti da Colui che rappresenta il motore del loro dinamismo missionario e lo spazio amichevole dove poter raccontare quanto hanno vissuto — di certo fisicamente lontano da lui ma, pur sempre, alla sua presenza —, esercitando quel potere (exousía) che lui stesso aveva conferito loro (cfr. Mc 6, 7). Raccontare il proprio vissuto è un atto umanissimo che comporta una dimensione dialogica e accade in uno spazio squisitamente relazionale, presso il palpito del cuore di chi ti ama e accoglie tutto di te, senza la pretesa di volerti rendere perfetto/a, senza la bramosia di renderti a sua immagine e somiglianza ma lasciandoti essere chi devi essere: te stesso/a. Nella tua unicità.

Il Maestro aspetta i suoi per accoglierli, ascoltare sfoghi accesi e intime confidenze, e dispiegare una tenera liturgia di cura e premura, quella che solo chi ti ama sa compiere, sprecando quel che più conta, il proprio tempo, realtà che per chi ama non passa, non si perde né si spreca, ma “dura”, rimane, si tesorizza. Gesù seleziona un luogo desertico, appartato, dove desidera che i suoi riposino, facciano cioè l’esperienza che, in prima battuta, fa Dio nella Bibbia (cfr. Gen 2, 2.3; Sal 95, 11; 132, 8; Sir 36, 15; Eb 4, 1.3.10). Colui che riposa e fa riposare è solo il Pastore (cfr. Sal 23, 2), il Pastore detto «bello» che alle sue pecore non dà cose ma la sua stessa vita (cfr. Gv 10, 11). Il riposo nel quale Gesù introduce i suoi non è sterile pigrizia, né un meschino sottrarsi al grido della gente e al suo pressing dettato dalla fame, ma contemplazione di una bellezza che eternamente rapisce: la grazia della sinergia tra Dio e le creature che rappresentano il suo capolavoro insuperabile. Questa contemplazione permette agli apostoli di tenere gli occhi sempre ben aperti sia su Dio che sul popolo e fare la spola tra il cuore assetato dei poveri e il grembo del Padre straripante di tenerissimo amore, sempre disposto a fare di pecore disperse «un solo gregge, un solo pastore» (Gv 10, 16), di gente lontana dei «vicini» (Ef 2, 13), di tanti orfani dei «familiari di Dio» (Ef 2, 19), dei figli «amati» (1Gv 4, 1.11). E i nostri su cosa sono aperti? Che cosa contemplano? Perché noi siamo ciò che guardiamo.

di Rosalba Manes
Consacrata dell’Ordo virginum e docente di teologia biblica
 (Pontificia Università Gregoriana)