La testimonianza delle agostiniane di Pennabilli

Una rete di preghiera
per il Mediterraneo

 Una rete di preghiera per il Mediterraneo  QUO-155
12 luglio 2021

Qualcuno lo ha già definito un vero e proprio sinodo per il Mediterraneo quello che si terrà a Firenze nella primavera del 2022, ideale prosecuzione dell’evento di Bari dell’anno scorso «Mediterraneo, frontiera di pace». E come già in quell’occasione, anche su Firenze non mancherà l’accompagnamento, ad iniziare dalla preghiera ma anche da una riflessione attenta, di una rete internazionale di monasteri, avviata a suo tempo dalle monache agostiniane di Pennabilli, vicino a Rimini, su proposta del presidente della Conferenza episcopale italiana, cardinale Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia-Città della Pieve, e alla quale hanno poi aderito le carmelitane di Tangeri (Marocco), le agostiniane di Rossano Calabro, le clarisse di Scutari (Albania), di Alessandria d’Egitto e di Gerusalemme, la Piccola Famiglia dell’Annunziata di Ain Arik a Ramallah (Palestina), le religiose maronite del Libano e le carmelitane di Aleppo.

E sulla rocca di Pennabilli, quella esperienza di rete non si è certo esaurita, come racconta, a nome di tutta la comunità di 13 monache agostiniane, suor Abir Hanna, libanese e unica straniera del monastero romagnolo. «Quella rete di preghiera è stata un dono per sé stessa e l’abbiamo gettata certe che la nostra esperienza di vita monastica ne avrebbe raccolte altre, su diverse sponde del Mediterraneo, come è infatti avvenuto, perché tutte hanno uno sguardo ma anche una parola da dire, a partire da una conoscenza della realtà letta sia alla luce della parola di Dio e del vissuto personale che da un modo di guardare alla realtà, di ascolto delle persone. Da subito, da quando abbiamo cominciato a ricevere i contributi scritti dagli altri monasteri, ci siamo accorte che era realmente così; quello che abbiamo fatto nel frattempo è stata mantenere l’amicizia tra queste comunità con uno scambio di doni, ma anche di informazioni e di una narrazione del vissuto. Ma certamente guardiamo anche al futuro e proprio in questi giorni stiamo pensando a come accompagnare nuovamente la proposta dell’incontro dei vescovi del 2022: vorremmo riflettere, come abbiamo fatto per Bari, sulla traccia che anche i vescovi seguiranno, ma vogliamo farlo prima, per camminare insieme, oltre ovviamente all’accompagnamento con la nostra preghiera. Per noi — prosegue — il punto è quello di una riflessione teologica a partire dal contesto, proprio come auspicato da Papa Francesco a Napoli nel 2019, per una teologia più aderente alla realtà, che non parta dall’alto, ma dal vissuto alla luce della parola e della storia. Per Firenze pensiamo di andare ancora in questa direzione, riflettendo sulle tematiche che saranno al centro dell’incontro, soprattutto su quella della cittadinanza, rispetto alla quale il monachesimo ha sempre detto tanto».

Per suor Adir e le consorelle c’è la necessità di «abitare la realtà di oggi con le sue risorse, ma anche con problematiche diverse da una sponda all’altra: da un lato le persone partono, dall’altro arrivano, e non sempre vengono accolte».

La riflessione di questi giorni delle agostiniane si intreccia anche con i continui riferimenti del Vangelo in cui Gesù passa da una riva all’altra: «Riflettevamo su questa nostra rete del Mediterraneo», e proprio ieri, domenica, festa di san Benedetto, si è celebrata la Giornata di preghiera per i migranti morti in mare indetta dalla Cei. «La parola “rete” — ricorda la religiosa — ha a che fare sia con la pesca sia con le cose che si intrecciano, piene di fili e quindi anche di vissuti; la rete non può essere fatta da un filo solo, ma da tanti che si annodano, si intrecciano e poi danno forma a ciò che serve per pescare. Nel passare di Gesù da una riva all’altra, ogni riva “è” una parola, e non ha soltanto una parola», sottolinea suor Adir, ricordando anche l’ispirazione rispetto all’idea di Giorgio La Pira che pensava al Mediterraneo come ad un grande lago di Tiberiade e chiedeva sistematicamente aiuto ai monasteri.

«Gli attraversamenti che facevano i discepoli — riprende la giovane monaca — è quello che sentiamo di dover fare noi come Chiesa e comunità monastiche: metterci in ascolto una dell’altra, elevare questo ascolto all’orecchio della Chiesa italiana. È quello che già abbiamo fatto per Bari, consegnando poi un nostro scritto al cardinale Bassetti e ai vescovi italiani e del Mediterraneo».

Il cammino verso un mare che diventi frontiera di pace, visti anche i continui accadimenti con i migranti che muoiono tra le onde, è però ancora lungo «ma la nostra speranza è che il mare, che bagna tutte le sponde con la stessa acqua, diventi luogo di incontro. Se guardiamo alla storia, il mare è sempre stato questo, oppure è stato un luogo di scontri, ma dipende molto dall’umanità che abita sulle sponde, da quella carità che fa da nave, come diceva Agostino».

Il mare però, da questo monastero sulle prime colline romagnole, è appena uno spicchio di Adriatico laggiù in fondo, ma non per questo le agostiniane di Pennabilli avvertono di meno la tensione ad attraversarlo: «Il nostro monastero è su una rocca e sopra c’era una fortezza che serviva per le sentinelle che scrutavano l’orizzonte. Nella Bibbia c’è spesso questa figura della sentinella e noi pensiamo che la vita monastica, come tutta la vita consacrata, ha questa chiamata a porsi come sentinella, a guardare lontano. E se uno vede prima quello che accade, può anche annunciarlo prima. Dobbiamo avere proprio questa capacità di guardare lontano, scorgere dove c’è una possibilità di incontro».

Ecco allora che la rete di preghiera va avanti «perché la preghiera è la cosa più concreta, è la vita», chiosa suor Abir. Ma va avanti anche l’incontro per fare del Mediterraneo una frontiera di pace. «E la parola pace — sottolinea la religiosa libanese — nella lingua ebraica e in quella araba ha etimologicamente il senso di uno che si consegna all’altro. Ma quando ti consegni è perché hai fiducia che l’altro è un amico, che l’altro è in grado di ascoltarmi, che non devo urlare per farmi ascoltare e che io posso ascoltare l’altro senza che lui debba urlare per imporsi. C’è bisogno di recuperare questa capacità di compassione, di “patire con” la condizione dell’altro e farla mia. Dobbiamo togliere quell’estraneità che purtroppo negli ultimi decenni abbiamo coltivato tanto, per recuperare la capacità di ascolto, dove la forza dell’altro è anche la mia e ci toglie da questa condizione che ci ha reso estranei l’uno dall’altro. Perché è molto facile che l’altro diventi mio nemico se mi è estraneo».

di Igor Traboni