La cura
Il potere dell’invisibile

Salvarsi con un libro

 Salvarsi con un libro  QUO-146
01 luglio 2021

D’altronde, se fin dagli anni Trenta del Novecento il libro è tornato al centro della cura con William Menninger, che fonda la cosiddetta Biblioterapia, allora ha ragione chi sostiene che la materia è solo una parte dell’esistente, e che ciò che non è immediatamente visibile ha un grande potere nella nostra vita. Il che vuol dire, con il linguaggio dell’oggi, neuroni specchio, endorfine, connessioni cerebrali. Come ha recentemente scritto lo psicoterapeuta Tonino Cantelmi, la lettura è semplicemente — o abissalmente, dipende dai punti di vista — cura dell’anima. Non una scoperta del secolo breve, però. Perché a periodi di oblio talvolta coatto (le condizioni di estrema povertà degli operai nell’Ottocento, la convinzione che la lettura fosse una perdita di tempo per smidollati) si sono alternate epoche in cui la cura attraverso il libro — o la sua rappresentazione scenica, ad esempio la tragedia — era largamente riconosciuta. E secondo Aristotele, la purificazione, o catarsi, attraverso la mìmesis, vale a dire l’immedesimazione nel protagonista, significava la rinascita, la riemersione dal caos della violenza e dal non senso: chi guarda ripercorre — come non vedere qui una geniale anticipazione della teoria dei neuroni specchio? — i rischi, i pericoli, le peripezie del personaggio, e si libera, grazie a questo processo, davvero dal pericolo e dal dolore. Anche se già Platone aveva indicato nella purificazione della saggezza la capacità di non restare attaccati alle cose e alle apparenze.

L’avvento della scrittura non è stato però indolore, e, secondo alcuni studiosi, è stato un vero e proprio trauma, poiché la memoria e la cultura orale rappresentavano il contatto diretto e non trascrivibile in termini grafici, perciò materiali, con la saggezza e con la divinità. Il mettere per iscritto fu considerato la perdita dell’aura sacra del sapere. E però quel sapere ha potuto non solo diffondersi, ma salvare la cultura di tutte le latitudini del pianeta, quando si sono configurate epoche di imbarbarimento e di crollo delle istituzioni. E delle culture stesse. Se prima era la parola a comunicare il sacro, ora era il segno scritto, su diverse tipologie di supporti, a raggiungere un pubblico, anche se ristretto a determinate élite. Una parte del sapere e della saggezza arcaica continuavano a essere tramandati oralmente di generazione in generazione. Campione moderno di questa assoluta interdipendenza tra parola e scrittura è stato Borges, colpito da cecità ma cantore dei misteri e della fascinazione del terreno “sacro” della biblioteca arcaica. Non è un caso che un fenomeno complesso e ancora oggi assai studiato nelle sue implicazioni storiche, mistico-religiose, psicologiche e antropologiche come il monachesimo sia alla base della cultura, non solo in Occidente.

San Benedetto era un uomo di classe sociale elevata che scelse di ricominciare da zero, dai doni di Dio, la terra, l’acqua, i frutti spontanei, la carità. Se fosse stato un altro avrebbe forse ceduto alla tentazione di cancellare quella che alcuni consideravano la fonte del male: la cultura. E non c’è stato chi — nel cammino storico — non lo abbia fatto in epoche diverse e con ragioni talvolta opposte. E invece Benedetto ha posto come pilastro fondamentale di quella rinascita la scrittura, attraverso una paziente opera di salvataggio dei volumi che rappresentavano quella storia, non sempre e non solamente cristiana. Non è un fatto di eterogenesi dei fini, o di ironia della storia, ma di coscienza insieme razionale e sostenuta dall’ispirazione divina: la storia non può essere cancellata, ma aiutata a migliorarsi sì, e la scrittura era uno dei modi per curarne i mali. Altrimenti non si capirebbe come il Cantico di Frate Sole sia una delle opere più lette al mondo, simbolo stesso della letteratura medioevale, e non solo quella. Francesco d’Assisi aveva rinunciato alle lusinghe della società alta, però c’era stato dentro fino al collo, e sapeva bene quello che perdeva. La grandezza di questi due santi, e prima ancora uomini, è stata quella di essere stati saggi e di non farsi catturare dalla tentazione dell’estremismo palingenetico. In questo modo benedettini e francescani hanno rappresentato la cura dell’Occidente. Una cura in cui il libro avrebbe assunto un’importanza fondamentale. Anche nella modernità. La straordinaria carica mistica di Francesco non viene attenuata dal fatto che noi leggiamo quelle parole in lingua umbra, come la lettura dell’Ecclesiaste non ha impedito che le sue pagine diventassero un punto di riferimento molti secoli dopo: basti pensare alla iterazione del «ci sarà tempo» del Canto d’amore di Prufrock di Eliot, alle canzoni del folk revival e della protesta in America, soprattutto il Pete Seeger — e poi i Byrds— di Turn turn turn («un tempo per nascere, un tempo per morire») e alla colonna sonora di Milano Calibro Nove in cui gli Osanna cantavano che «ci sarà un tempo per morire e tempo per creare», tutte riprese da Qoelet.

Il testo biblico diviene non solo ritualità e saggezza, ma veicolo di senso della vita che per questo viene ripreso perfino e soprattutto dalle generazioni più aggressive e contestatarie come cura contro il culto delle cose. Ed è per questo che la sapienza nascosta nel libro non è mai fine a se stessa, anche quando sembra narrare la fine, la sconfitta, come nel caso del Giardino dei Finzi-Contini di Bassani: in realtà la fine dell’amata permette al protagonista di salvarsi non solo dalla deportazione, ma di rinascere e di varcare la soglia dell’adolescenza accettando le leggi e le regole, non sempre apparentemente razionali, dell’eros e dell’agape. Anche qui, aveva ragione Aristotele, il lettore attraversa i sentieri dell’innamoramento, del no, della sconfitta, proiettando sul personaggio qualcosa che sembrava essere un incidente personale, e che invece la storia narrata rivela essere parte del giro delle cose del mondo.

Sì, il libro è cura attraverso il procedimento del rispecchiamento e della capacità della lettura di mimare e compiere dentro la propria psiche le azioni narrate. Il grande antropologo e gesuita Marcel Jousse lo aveva genialmente rappresentato nella sua rivalutazione del simbolo oltre la retorica delle figure: esso è alla base delle manifestazioni umane che tendono a imitare i movimenti e i ritmi dell’universo. E non è un caso che un romanzo apparentemente senza speranza come Tre croci di Federigo Tozzi conservi fin dal titolo il riferimento alla potenzialità salvifica dell’azione, in quel caso due sorelline che «spaccarono il salvadanaio di coccio» per mettere tre croci sulle tombe di zii reietti e scansati da tutti, a riprova che il bene vince sul male anche se impersonato non da un cavaliere senza macchia, ma da esseri indifesi.

La lettura di un libro, talvolta senza conoscere né trama né autore, può davvero rappresentare una cura dell’anima, un’improvvisa aura di benessere interiore, come aveva capito e scritto non un idealista romantico, ma Saverio Strati, uno scrittore teso a dire le cose, a narrare la dura realtà dei contadini, allorché un ragazzo di campagna improvvisamente avverte la possibilità di rinascita attraverso il potere della lettura: «Gli fu chiaro come l’acqua della fontanella laggiù che se tu leggi o scrivi viene capito da tutti coloro che sanno leggere o scrivere, e tu non sei solo, e tu non sei più uno».

di Marco Testi