Atlante - Cronache di un mondo globalizzato

Il pianeta ci presenta il conto

Lesotho, sullo sfondo la  diga Katse.  In primo piano il misero raccolto  di un contadino (Afp)
25 giugno 2021

Cibo, acqua, riparo. «I tre pilastri della salute umana – avverte in questi giorni l’Organizzazione mondiale della Sanità – sono estremamente fragili e vicini al collasso». Un collasso che l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) fissa al 2050 quando — dice l’anticipazione di un rapporto che sarà presentato alle Nazioni Unite — altri 80 milioni di essere umani non avranno nulla da mangiare. Ed altri 150 milioni ancora, per l’Ipcc, soffriranno cronicamente la fame: si aggiungeranno ai 690 milioni (dati della Fao) che già oggi sono esclusi dal diritto al cibo.

Nel 2050 che potrebbe essere la fame prenderà il sopravvento. La terra, sfruttata e privata dell’acqua deviata nella produzione energetica di una società dalle esigenze altissime, resa sterile dalle temperature torride, darà pochissimo e quel poco (riso, grano, orzo, patate) avrà perso dal 6 al 14% del suo potere nutritivo.

Altre previsioni dell’Ipcc, in uno scenario che si sarebbe tentati di considerare fantascientifico non fosse per l’autorevolezza delle fonti che concorrono a renderlo prevedibile, vanno dalla nutrizione povera e scadente ad una vertiginosa crescita dei prezzi dei prodotti alimentari, spinta da carestie a loro volta accelerate dal mutamento climatico e dalla fame energetica globale.

Segnali, a riguardo, già risuonano in lontananza. I prezzi dei generi alimentari di base da maggio ad oggi sono in salita, fino al 40%. Per effetto della pandemia, poi, l’accesso all’energia elettrica si è chiuso per due terzi della popolazione sub-sahariana che non se lo può permettere per i bisogni primari.

Questa salita dei prezzi si abbatte su società povere o in via di sviluppo, molto spesso dipendenti come sistema paese dalle tossiche fonti energetiche fossili e, come individui, da campi, bestiame, lavoro schiavile o sfruttato. Il paradosso che ci rivela l’analisi dell’Ipcc sta anche qui: se tagliare le emissioni di C02 che surriscaldano la Terra doveva essere fatto già ieri, politiche mascherate di verde e basate su compromessi grigi rischiano di accelerare la discesa nel baratro della fame dell’umanità. La svolta energetica richiesta alla comunità internazionale deve essere autentica o sempre più persone finiranno in preda a quella che gli analisti chiamano “insicurezza alimentare”: un modo per dire che la fame viaggia sempre con guerre, rivolte, stati falliti e un mare di corruzione.

Nello sventurato Madagascar, la cui agonia per fame e carestia non buca gli schermi dell’informazione occidentale, si produce l’energia elettrica per una società privata panafricana che fornisce il Ghana, il Togo, il Benin, il Burkina Faso, il Mali e la Liberia. La casa madre, in Costa d’Avorio — altra sede di produzione di energia — sta facendo i conti con la siccità che rallenta la distribuzione a Paesi non autonomi. Produrre energia richiede acqua, dighe. I Paesi poveri hanno disperato bisogno di energia e, giustamente, la cercano per case ed ospedali. Ma la sovrapproduzione monopolistica spreme la terra, incide sull’agricoltura, non riesce a garantire un accesso equo. È una tenaglia che va spezzata, la tragedia del Madagascar (fra decine di altre) lo dimostra.

La sfida della produzione energetica sostenibile e quella contro la fame coincidono. La tentazione dei forti, in questi tempi in cui si rimodellano gli schemi di produzione (un esempio il piano per l’agricoltura ad emissioni zero allo studio dell’Unione europea) potrebbe essere quella di conservare la velocità dei consumi mancando, però, l’obiettivo del taglio globale delle emissioni.

Un esempio ce lo dà proprio la cosiddetta “food chain”, se scopriamo quanta energia costa il cibo che produciamo. Produrre cibo assorbe il 30% dell’energia del mondo (per lo più da fonti fossili). Ebbene, il 70% di questo mare d’energia (dati della Fao) finisce in packaging, trasporti magari dall’altra parte del pianeta, spedizioni, immagazzinaggio, marketing. Mentre una persona su cinque al mondo non ha accesso a servizi elettrici dignitosi (sempre fonte Fao che fa la cifra di 1,4 miliardi di “poveri energetici”).

Produrre l’energia per il packaging (che spesso attiene più all’attrattività che alla sostanza) ha un impatto ambientale ormai insostenibile. E l’impatto ambientale è mettere milioni di persone alla fame. Senza contare che un terzo del cibo così prodotto finisce fra i rifiuti, insieme a packaging vari e anche alla preziosa energia che hanno assorbito mentre una casa, ad esempio, in Costa d’Avorio o in Nigeria, non aveva corrente per i bisogni elementari.

Nel mondo le dighe sono strategiche. Lungo il Nilo Azzurro, ne è sorta una battezzata Diga del rinascimento che deve iniziare a funzionare interferendo con il grande fiume. Per questa struttura Etiopia, Sudan ed Egitto sono al limite dello scontro ed il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è stato chiamato a fare da arbitro nella guerra dell’acqua e dell’energia. Povertà energetica ed avidità energetica si affrontano. Ma il 2050 è una previsione, non una condanna.

Non si possono costruire dighe per impacchettare hamburger.

di Chiara Graziani