Riedita da Vallecchi l’opera prima di Mario Tobino

Come un grillo
chiuso in una scatola

 Come un grillo   chiuso in una scatola   QUO-135
17 giugno 2021

Bisognerebbe trovare il tempo (e l’attenzione) per leggere a voce alta la prosa di Mario Tobino per goderne appieno la musica, seguendone l’andamento ondivago e avvolgente di marea che culla e abbraccia, sussurra e consola; soprattutto nel caso del primo romanzo, Il figlio del farmacista, riedito da Vallecchi (Firenze, 2020, pagine 94, euro 14), visionario e lirico, pieno di fotogrammi delicati e diafani che una lettura frettolosa rischia di non mettere a fuoco. Serve tempo e disponibilità all’ascolto per seguire un ragazzo atterrito dalla prepotenza dei clienti che affollano il negozio di suo padre, sempre stanco per i turni di notte e con le mani corrose dagli acidi delle preparazioni galeniche.

Il protagonista del libro coincide con l’autore, nota Giulio Ferroni nell’introduzione intitolata L’attesa della poesia, ma parlare di autobiografia è riduttivo. Si tratta in realtà di un raffinato gioco di sdoppiamenti e variazioni di punti di vista tra la prima persona del narratore, medico psichiatra, e la terza persona che racconta l’itinerario di un amico di cui annota aspirazioni, dubbi, angosce.

La poesia, per la voce narrante multipla del libro, non è una torre d’avorio dove rifugiarsi ma esattamente l’opposto, un osservatorio posto più in alto rispetto al piano della vita “normale” da cui allargare l’orizzonte dell’attenzione, avvicinarsi il più possibile agli altri.

Siamo lontanissimi, nota con acutezza Ferroni, dalla prosa d’arte in auge negli anni Trenta del Novecento, agli antipodi di un ermetismo fiero della sua oscurità, alla ricerca costante di sensi segreti e iniziatici.

In queste pagine la volontà di dire «si apre verso una libera possibilità di vita, che si fa strada tra tutto quello che di ostile c’è nel mondo: e quella passione di vita e di poesia si afferma nel palpitare delle forme e dei gesti, nel modo di porsi delle persone, nella vivace concretezza dei rapporti umani, nella bellezza che li costituisce». Un’inattesa bellezza si mostra al giovane medico nel manicomio di campagna che ha scelto come osservatorio sul mondo. Inattesa quanto più immersa nel dolore, nascosta dietro volti sfigurati dalla malattia.

«Il giovane dalla cameretta — scrive Tobino nel suo romanzo di formazione — vede che altri uomini lo guardano e nel silenzio, mantenendo egli il silenzio, infila le dita lentamente nella feritoia, il figlio del farmacista si scosta, le dita del giovane si muovono, come volessero cercare un sostegno, ma con delicatezza, gentili, una mano svagata di ragazza che sogna da sveglia».

L’empatia verso il ragazzo recluso fa affiorare il ricordo di una tradizione tutta toscana, la festa del grillo, che si celebra il giorno dell’Ascensione. «Un giorno misi un grillo dentro una scatola con dei buchi perché respirasse — continua Tobino — il grillo così annaspava da un buco con un suo tentacolo o zampa, producendo lo stesso musicale annaspìo del giovane matto nella feritoia. “Lasciamogli aperta la luce” dice il medico, “non conosce ancora la cameretta, che non si faccia male non vedendo le pareti” e aggiunge “qualsiasi cosa, se mai chiamatemi”. E il figlio del farmacista ritorna indietro. Le teste pallide dei matti sui guanciali».

Avvolto dall’oscurità “buona” della notte, il figlio del farmacista si lascia abbracciare dal dolore degli altri, non lo ignora, non lo minimizza, non si lascia bloccare dalla paura, accetta di lasciarsi ferire da ogni contraddizione, da ogni grido che ascolta. Di notte, «fisso in quella luce trasparente e buia e amante», ripensa «a questo dolore che lo tentacola stendendosi verso di lui dai cameroni, corridoi, buchi, ogni angolo, dolore che s’agita e stagna come l’umidità dai muri; a queste risate; a questo pensare dolorosamente pazzo; a questa prigione, le sbarre, le matte con i capelli sconosciuti al pettine, i fiori che nonostante quelle voci pazze profumano nei giardini tra una sezione e l’altra».

Nel silenzio e nella pace della notte, il giovane medico ripensa al «camminare vorticoso inutile dei matti nel recinto, il rivolgersi loro continuo a spettri, questo dolore che valica questi muri e si riversa per la campagna che sembra non lo intenda e ugualmente opulenta si ubriachi d’estate; questo silenzio con delle grida appena percettibili che vengono di là, dai reparti, tra il silenzio della notte e l’ammiccare birichino dei grilli nascosti dietro uno stelo».

di Silvia Guidi