Le strutture del Centro Astalli intervengono anche a mitigare l’effetto della pandemia

La città che abbraccia
e accompagna

 La città che abbraccia  e accompagna  QUO-131
12 giugno 2021

«A tredici anni sono scappata da Kinshasa con la mia famiglia per sfuggire alla guerra civile in Congo, era il 2002. Ho impressa nella mente l’immagine di una pistola impugnata da un poliziotto, che perquisì casa di mio zio dove alloggiavamo di passaggio. Nessuno poteva uscire, nessuno poteva entrare. Ma io alla fine sono uscita: e sono scappata in Italia»: Mpemba Umba ora ha 32 anni. Ed è mamma di una bimba di nove. Il suo è il racconto di memorie drammatiche, di fatti che non si sono trasformati in tragedia solo grazie all’accoglienza di altri esseri umani, di una città da sempre aperta, di una struttura in particolare, quella del Centro Astalli, nata nel 1981 per volontà dell’allora preposito generale della Compagnia di Gesù, Pedro Arrupe. «Non parlavo una parola d’italiano — ricorda Mpemba —. Dopo qualche anno i miei genitori si sono trasferiti in Polonia, mentre io sono andata a vivere a Parigi. Poi sono tornata qui per dare a mia figlia le chances che non ho avuto io. Un giorno vorrei portarla in Congo e mostrarle il Paese da cui proviene, anche se l’Italia è una seconda casa per me. È qui che ho conosciuto la vita».

Mpemba è tra i tanti che hanno potuto beneficiare anche durante la pandemia del Servizio dei gesuiti per i Rifugiati. La struttura infatti non solo aiuta a inserire i rifugiati nel Paese di arrivo ma li segue nel loro percorso, intervenendo laddove è possibile e necessario. Un anno fa la donna lavorava come stagista receptionist presso una struttura alberghiera, che ha dovuto licenziarla in seguito alle restrizioni imposte dal lockdown e al crollo del turismo. «Il Centro Astalli mi ha aiutata a pagare le bollette e l’affitto di casa. Grazie al suo supporto economico, ho cominciato a frequentare un corso per diventare assistente socio-sanitaria. Mi piacerebbe avere un lavoro più stabile e contemporaneamente dare una mano a chi ha bisogno», conclude Mpemba, che a fine corso potrà realizzare il suo desiderio. «Lavoro è la parola che risuona più spesso tra coloro che arrivano qui», racconta Cecilia De Chiara, coordinatrice dello spazio inclusione «Matteo Ricci», al civico 13 di via Astalli. «Ma prima di avviarli verso un percorso di inserimento, è necessario capire da quale storia provengono, a quali esigenze dobbiamo andare incontro per aiutarli. L’accoglienza si compone di diverse fasi, ci occupiamo di fornire loro un sostegno sanitario e legale, organizziamo corsi di orientamento al lavoro, di alfabetizzazione informatica, di lingua italiana e inglese, indispensabili per chi cerca un’occupazione nel settore turistico-alberghiero». Spiega poi che la pandemia ha creato una sorta di bisogno d’assistenza di ritorno e molte persone, già integrate nel tessuto sociale romano, hanno dovuto richiedere aiuto perché impossibilitate a pagare canoni di locazione e utenze. «Grazie all’Elemosineria Apostolica della Santa Sede e al supporto di donazioni private e fondazioni, abbiamo potuto fronteggiare l’emergenza dei nuclei familiari più fragili. Non dimentichiamoci — ricorda De Chiara — che il settore turistico, in cui spesso trovano impiego coloro i quali si rivolgono a noi, è stato uno dei più colpiti dal lockdown». L’attività del Centro non si è mai fermata neanche durante i periodi più bui della pandemia, l’impegno di operatori e volontari, sempre attivi nel servizio di assistenza ai rifugiati, non ha subito battute d’arresto dettate dall’emergenza. Basti pensare che, come è emerso dal rapporto annuale 2021, dei 17 mila migranti forzati che sono transitati dal territorio italiano nel 2020, 10 mila sono stati accolti solo nella Capitale, dove il Centro Astalli può contare su diverse strutture: «Casa di Giorgia» e il centro «Matteo Ricci», destinati all’accoglienza di donne sole o con bambini, «San Saba» che ospita uomini rifugiati nel cuore dell’Aventino, il centro «Pedro Arrupe» per famiglie e minori, «Casa di Marco» riservata a minori stranieri non accompagnati, «Casa di Maria Teresa» per donne sole e con bambini in grave difficoltà e, infine, «Il Faro», centro d’accoglienza diffusa per soli uomini. Uno degli aspetti di maggior criticità, che il Servizio dei gesuiti per i rifugiati ha rilevato nella Capitale, è legato alla registrazione delle dichiarazioni di residenza, problema che si riflette a cascata su tutti i servizi connessi a livello assistenziale. «È un tema molto serio legato alla tracciabilità delle persone — spiega padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli —. Fino a qualche anno fa si poteva richiedere la residenza in via degli Astalli, adesso non è più consentito e molti, soprattutto rifugiati a cui è scaduto il permesso umanitario di soggiorno, si sono ritrovati nell’impossibilità di rinnovarlo, restando a galleggiare in un limbo che non consente loro di usufruire dei servizi sanitari e assistenziali necessari. Situazione — prosegue padre Camillo — resa ancor più drammatica dalla pandemia. La questura, infatti, non riconosce come legittima «via Modesta Valenti» (dal nome della senzatetto romana deceduta nel 1983 alla stazione Termini, strada fittizia il cui civico assegnato corrisponde al numero del municipio dove di solito si trova il clochard) come indirizzo per il quale poter richiedere la residenza in mancanza di un’abitazione. La perdita del lavoro, causata dalla diffusione del Covid-19 tra chi era impiegato nel settore turistico, spesso senza regolare contratto, ha creato un peggioramento della condizione economica e acuito lo stato di marginalità in cui queste persone versavano ancor prima dello scoppio dell’epidemia. La crisi si è limitata ad amplificare un problema già esistente», conclude padre Ripamonti.

Dall’83 ad oggi sono trascorsi quasi quarant’anni e l’opera di accoglienza, avviata da padre Arrupe e affidata al Servizio dei gesuiti per i Rifugiati, ha consentito di mantenere alta l’attenzione sulle gravi conseguenze delle numerose guerre e violenze che ancora oggi devastano tanti paesi del mondo. La parola d’ordine del Centro Astalli, il cui epicentro resta Roma, è sempre stata integrazione, perché non è sufficiente accogliere, ma è necessario integrare, dunque completare, far entrare, aggiungere, come il verbo stesso “accoglienza” suggerisce.

di Lorena Crisafulli