CHE MONDO CORRE

Quanto costa
la democrazia?

 Quanto costa  la democrazia?  QUO-120
29 maggio 2021

«Mai prendere in prestito un dollaro senza istituire (…) un contributo atto a pagarne l’interesse annuo, e il capitale entro un termine preciso; (…) Con una garanzia come questa (…) un governo può sempre avere a disposizione (…) tutto il denaro prestabile dei cittadini e d’altronde la necessità di una tassa equivalente agisce come salutare campanello d’allarme per la classe politica e per gli elettori contro le vessazioni». Con queste parole, Thomas Jefferson, ritiratosi dalla vita pubblica dopo il doppio mandato presidenziale, in una lettera a John Wayles Eppes il 24 giugno 1813, mette in chiaro quale siano le sue idee sulla qualità della decisione pubblica nell’esperimento repubblicano, in forza del quale ciascuna persona ha uguale voce in capitolo nel governo degli affari che lo riguardano. Si tratta di un chiarimento che giunge al termine dell’annosa querelle che lo vide contrapposto a un altro founding father: James Madison.

Tale diatriba è stata meritoriamente riportata in un bellissimo libro curato da Alberto Giordano: Quanto costa la democrazia? Debito pubblico e generazioni future (Rubbettino, 2021).

Al centro della querelle troviamo il loro differente approccio sulla possibilità che il governo accumuli debito pubblico; tenendo conto dell’assioma jeffersoniano: «La terra appartiene in usufrutto ai vivi», nessun obbligo andrebbe trasmesso alle generazioni future.

Ebbene, proprio la situazione che stiamo vivendo, le numerose crisi del debito che hanno interessato tanti Paesi, in primis l’Italia, e l’esplosione del debito dovuto ai costi ingenti della pandemia, ci spinge a ritenere che il confronto tra Jefferson e Madison possa risultare utile per comprendere le questioni politiche, economiche e morali che si celano dietro l’apparente freddezza della decisione politica; in pratica: il costo della scelta politica in regime democratico.

L’approccio di Jefferson, analizzato scrupolosamente da Marco Bassani in un ponderoso saggio del 2002: Il pensiero politico di Thomas Jefferson e ripreso anche da Giordano, si inserisce nel quadro della matrice lockiana, secondo la quale il diritto di proprietà entra nel novero di quelle «self evident truths» e, con particolare riferimento all’emissione di titoli pubblici, afferma Jefferson in una lettera all’amico Madison del 6 settembre 1789: «Nessuna generazione può contrarre debiti maggiori di quelli che si dimostra capace di ripagare durante il corso della propria esistenza», sulla base del principio che ogni generazione ha il diritto di decidere per sé e di non dipendere dalle decisioni delle generazioni passate.

Madison riteneva che la posizione di Jefferson fosse problematica e che rischiasse di compromettere la legittimità dell’intero sistema politico. Nella prospettiva di Madison, la decisione politica dovrebbe essere animata dal principio di «equità infra-generazionale», in base al quale i miglioramenti effettuati dai «morti» rappresentano un «legato testamentario» nei confronti dei «vivi» e che il diritto a riscuotere una simile eredità dipenda dal rispetto della volontà dei primi che accompagna tali miglioramenti; compito del decisore politico è di fare in modo che gli addebiti nei confronti dei vivi non superino i miglioramenti acquisiti dai morti.

Si comprende come il tema sia di grande attualità. Il premio Nobel James M. Buchanan ha affermato che in passato il principio del pareggio di bilancio godeva del rango di principio costituzionale. Era proprio in quel contesto che trovava giustificazione il principio del «no taxation without representation». Il principio del pareggio di bilancio risponde a quattro funzioni fondamentali: 1. limitare il ricorso al deficit, elettoralmente meno costoso, per la copertura delle spese; 2. evitare il trasferimento sulle generazioni future dei costi dell’indebitamento; 3. non compromettere l’integrità del debito pubblico; 4. preservare la stabilità della moneta.

Al netto delle specificità storiche che hanno segnato il dibattito tra i due founding fathers, Giordano ritiene che sia possibile riconciliare i due approcci denunciando quelle scelte democratiche segnate dalle stigmate del breve periodo, quelle in nome delle quali, per usare le parole di John Maynard Keynes: «Nel lungo periodo saremo tutti morti»; in tal senso, il costo della democrazia è la perenne vigilanza contro il preteso arbitrio del decisore pubblico. Sono queste le politiche di indebitamento irresponsabile, di scarsa attenzione alla formazione e alla ricerca scientifica, all’incuria per l’ambiente e per la salute del nostro pianeta. Per tale ragione, la proposta di Giordano è di considerare The best of both worlds: la parte migliore di entrambe le prospettive, attingendo all’opera di due giganti del pensiero politico, ancora così utile tanto alla salvaguardia delle istituzioni democratiche quanto alla promozione dello sviluppo, elementi essenziali di un’ecologia umana integrale.

di Flavio Felice
Professore ordinario di Storia delle dottrine politiche Università del Molise