«Il bosco sacro» di Thomas Stearns Eliot

La sgradevolezza
della grande poesia

 La sgradevolezza della grande poesia   QUO-116
25 maggio 2021

I rami intrecciati della creazione letteraria vanno a configurare uno scenario in cui i talenti peculiari degli scrittori, anzitutto quelli d’eccellenza, convergono per fondare un patrimonio di principi e di idee di valore inestimabile. È questo il significato sotteso a Il bosco sacro. Saggi sulla poesia e la critica di Thomas Stearns Eliot, un testo che si qualifica come punto di partenza da cui scaturisce la successiva produzione dello scrittore statunitense, naturalizzato britannico.

Scritti tra il 1917 e il 1920, e ripubblicati nel 1928, questi saggi costituiscono la prima fondamentale affermazione di Eliot come critico e teorico. Incentrato sul concetto di «integrità della poesia», il volume rappresenta un’introduzione all’estetica eliotiana. «La tradizione — afferma — non è un patrimonio che si possa tranquillamente ereditare. Chi vuole impossessarsene deve conquistarla con grande fatica». Postulato, questo, che implica un impegno di spiccato spessore etico cui è chiamato chiunque metta mano «alla penna e al calamaio» per riversare sulla carta quell’inchiostro che è espressione di un mondo di affetti e sentimenti che meritano il massimo rispetto da parte di chi se ne fa portavoce.

«La poesia — scrive Eliot — ha senza dubbio qualcosa in comune con morale e con la religione, e forse anche con la politica, benché non si possa dire che cosa. Se io mi chiedo perché preferisco la poesia di Dante a quella di Shakespeare, direi che è perché mi sembra esemplifichi un atteggiamento più illuminato nei confronti del mistero della vita».

Ma senza la figura del critico, lascia intendere lo scrittore, la poesia non esisterebbe. Occorre un’interpretazione, anche la più libera e spigliata, per porre in essere i versi cui poi conferire il peso di una funzionalità sociale. Ma è pur vero, al contempo, che il critico deve essere all’altezza del verseggiare, in modo da creare «una sacra alleanza» e un indissolubile connubio tra poesia e critica, a beneficio della civiltà delle lettere.

Nell’indicare il migliore tra i critici, Eliot non ha dubbi: Samuel Taylor Coleridge, dopo il quale si staglia Matthew Arnold, sebbene fosse «più un propagandista della critica che un critico, più un volgarizzatore che un creatore di idee». Nel descrivere la figura del «critico perfetto», lo scrittore rileva che vi sono recensori che «appartengono essenzialmente al tipo che reagisce in eccesso rispetto allo stimolo, producendo qualcosa di nuovo sulla base delle impressioni provate». Tuttavia essi soffrono di «un difetto di vitalità» o di «un oscuro impedimento» che vieta alla natura di fare il suo corso. «La loro sensibilità — acutamente osserva — altera l’oggetto ma non lo trasforma mai». E poi aggiunge che un artista può essere un ottimo critico, come Algernon Swinburne, il quale testimonia che «di ogni artista ci si può quasi sempre fidare quando fa della critica». Sarà infatti «vera critica» e non soddisfazione di un impulso creativo represso.

Quando Eliot stesso si pone come critico, non si può certo affermare che in lui vi siano pulsioni a fatica contenute. Al contrario, poderoso è il fluire del sentimento, che risulta essere dirompente di fronte al capolavoro dantesco. «Nella Divina Commedia — evidenzia — vi sono molti versi e terzine capaci di trasportare anche un lettore scarsamente iniziato, che abbia un minimo di familiarità con le radici linguistiche e sappia decifrarne il significato, fino a fargli provare un’impressione di bellezza irresistibile».

Dovere del critico è di non farsi influenzare dalla moda di pensiero corrente ed imperante. Fedele a questo convincimento, Eliot non teme di esprimere riserve sull’Amleto, «lungi dall’essere il capolavoro di Shakespeare». È un dramma che si risolve in un «insuccesso artistico». Esso è «in parecchie guise enigmatico e inquietante come nessuno degli altri». E chiosa: «Di tutti drammi è il più lungo ed è forse quello su cui Shakespeare spese le fatiche maggiori, e tuttavia ha in esso lasciato scene superflue e incongruenti che anche un’affrettata revisione avrebbe dovuto notare».

Eliot ne Il bosco sacro dimostra la capacità di “ricamare poesia” quando scrive in prosa. Ne sono prova le illuminanti pagine dedicate a William Blake e che hanno il merito, sempre andando controcorrente, di sottrarlo alla sbrigativa e diffusa definizione di «poeta ribelle». Scrive Eliot: «È impossibile considerarlo un naif, un selvaggio, il selvaggio prediletto degli ipercolti. Svaporata la stranezza, la sua peculiarità si dimostra quella di tutta la grande poesia, qualcosa che si trova in Omero, in Eschilo, in Dante, come pure in Montaigne e in Spinoza». Si tratta di “una peculiare onestà”, un’onestà che, in un mondo troppo timoroso di essere onesto, risulta “particolarmente terrificante”. È un’onestà contro cui cospira tutto il mondo, perché è sgradevole, e «la poesia di Blake ha la sgradevolezza della grande poesia». Niente che si possa dire morboso o anormale, niente di tutto ciò che testimonia la malattia di un’epoca, ha questa qualità.

«Solo quelle cose — dichiara Eliot — ce l’hanno, che dopo uno straordinario travaglio di semplificazione, rivelano l’essenziale debolezza o la forza essenziale dell’animo umano».

di Gabriele Nicolò