La testimonianza di suor Ann Rose simbolo di coraggio in Myanmar

Dalla parte della verità

28 febbraio: a Myitkyina in Myanmar suor Anne Rose  affronta in ginocchio i poliziotti
11 maggio 2021

La foto di lei inginocchiata davanti ai poliziotti schierati in tenuta antisommossa ha fatto il giro del mondo. Suor Ann Rose Nu Tawng è diventata simbolo di eccezionale coraggio, a protezione dei dimostranti in Myanmar, in nome del Vangelo e della dignità umana. A raccontare la sua storia è Gerolamo Fazzini nel volume, in libreria dal 6 maggio, «Uccidete me, non la gente» (Emi, Verona, 2021, pagine 96, euro 10), di cui pubblichiamo stralci della lunga intervista, in cui la  religiosa, infermiera in un ospedale,  ripercorre tutta la sua vita. Il libro verrà presentato giovedì 13, alle ore 10.45, nella Sala Marconi della Radio Vaticana, in una conferenza stampa, alla quale, moderati da Monica Mondo, parteciperanno, via web, la stessa suor Ann Rose e, in presenza, oltre a Fazzini, il nostro direttore Andrea Monda e il gesuita birmano Joseph Buan Sing. L’incontro cade a pochi giorni dalla messa che domenica 16   Papa Francesco presiederà con  la comunità dei fedeli del Myanmar residenti a Roma.

Nella sua disarmante semplicità, sorella coraggio non si avventura in sofisticate analisi geopolitiche, ma insiste nell’affidare a Dio il destino suo e del popolo. Ascoltandola, abbiamo scoperto una donna umile e di grande fede, una persona che non ama i riflettori ma che non si è sottratta al dovere della testimonianza quando la storia l’ha interpellata.

Suor Ann Rose, che cos’è cambiato nella sua vita dal 1° febbraio, giorno del colpo di stato?

Da quel giorno il nostro popolo del Myanmar soffre. Mentre, a causa dell’emergenza coronavirus, la gente si trovava già in gravi difficoltà legate al lavoro e soffriva per vari motivi, si è verificato l’improvviso cambio politico che sappiamo. Quando sono stata raggiunta dalla notizia del colpo di stato dei militari ho avuto tanta paura. Sul momento mi sono sentita assalire dalla disperazione. Avevo la netta sensazione che stessimo per sprofondare di nuovo in un passato che volevo dimenticare. In alcune città il putsch è stato per la gente un vero shock. Per me, che vengo dall’area dei kachin, invece, si trattava di un déjà-vu. Una storia che va avanti da troppo tempo, fatta di violenza e sopraffazione.

Il 28 febbraio scorso lei è scesa in strada nella sua città per fermare i poliziotti: per tutta risposta è stata colpita da due sassi al petto. La sua foto davanti al plotone schierato ha fatto il giro del mondo. Ci racconta come sono andate le cose?

Quella domenica, davanti alla nostra clinica di Myitkyina sono passati vari gruppi di manifestanti, in totale un migliaio, quasi tutti giovani. Erano scesi in strada pacificamente, per far conoscere le loro istanze, senza creare problemi. Mentre passavano, io stavo curando tanti pazienti nella nostra clinica, che si trova vicino alla cattedrale e al nostro convento: avevamo deciso di tenerla aperta perché gli ospedali statali sono chiusi a causa della situazione politica. Ero con infermieri e medici quando ho sentito le voci e gli slogan dei dimostranti contro i militari. Poi, a un certo punto, sono arrivati i camion dei soldati e della polizia; i poliziotti sono saltati giù dai loro automezzi e hanno immediatamente sparato e colpito le persone con il manganello e usando fionde. Due sassi hanno raggiunto anche me. Io ho urlato ai dimostranti che entrassero nella clinica, cosa che in tanti hanno fatto. Poi sono andata davanti alla polizia.

Perché l’ha fatto?

Vedendo i manifestanti che si trovavano in pericolo, ho deciso di proteggerli, anche a rischio della vita. Sono andata dai poliziotti e li ho supplicati, implorandoli di non sparare sui civili, di non picchiarli con i bastoni o ferirli con le fionde. Per la tensione e la commozione piangevo e gridavo. Mi sono inginocchiata e ho alzato le braccia al cielo, invocando l’aiuto del Signore. «Se volete picchiare la gente o sparare sui dimostranti, fatelo con me al posto loro, perché non riesco a sopportare che soffrano per la violenza. Uccidete me, non la gente». L’ho detto dopo aver visto ciò che era accaduto in altre città, a Yangon, Mandalay e Naypyidaw, dove in tanti erano stati massacrati come animali.

Come ha trovato il coraggio di affrontare, disarmata, un plotone di uomini armati di fucile?

Credo che Dio si sia servito di me, nel momento in cui mi sono inginocchiata di fronte ai militari. Mi ha dato forza lo Spirito santo. Ho potuto farlo solo per la grazia di Dio. I cittadini che scendono in piazza per protestare sono giovani, sono il tesoro del paese. La polizia e i soldati li hanno uccisi e ciò rappresenta una grave perdita per il Myanmar. Questo non sarà mai un paese democratico finché i poliziotti e i soldati, che dovrebbero proteggere le persone, le ammazzano. A Dio non piace che si uccida.

Il Papa ha speso parole di solidarietà per il suo paese e il suo popolo. Al termine dell’udienza generale del 17 marzo scorso, alludendo al suo gesto ha detto: «Anche io mi inginocchio sulle strade del Myanmar e dico: “Cessi la violenza”». Come ha reagito a queste parole?

Questo sentimento di partecipazione del Papa ci ha impressionato e rafforzato. Perciò anch’io chiedo: continuate a pregare per il nostro paese e ad aiutarci, ne abbiamo molto bisogno.

In queste proteste molto spesso abbiamo visto scendere in strada preti, seminaristi, suore e fedeli laici. Pensa che questo possa contribuire a far sentire la Chiesa vicina al popolo, specie in un paese a stragrande maggioranza buddhista?

Certamente. La partecipazione di molti membri della Chiesa cattolica alle manifestazioni contro il colpo di Stato ha fatto sentire al popolo la vicinanza di quanti credono in Gesù: tanti hanno visto e capito che siamo in profonda unità col popolo, che sentiamo il dolore della gente, come fratelli e come cittadini, come membri di una sola famiglia. Noi viviamo tutto ciò come una missione per la nostra Chiesa del Myanmar.

Anche i monaci buddhisti sfilano per le strade.

Ogni religione insegna che l’ingiustizia si può vincere lottando per la giustizia e la verità. Oggi, però, nel nostro paese la verità è una cosa complicata. Noi vogliamo stare dalla parte della verità e della libertà e siamo pronti a pagare un prezzo per questo. Perché sappiamo bene che non sarà facile ripristinare la situazione precedente al colpo di Stato. Ma la speranza è l’ultima a morire.

di Gerolamo Fazzini