Quattro pagine - Approfondimenti di cultura, società, scienze e arte

Attorno alla tavola

La cena alla Catholic Worker House a Iowa City (Stati Uniti)
11 maggio 2021

«I nuovi giusti sono ovunque, confusi tra la gente comune, disseminati in tutto il mondo, persi in mille lavori e fatiche e problemi, a ricostruire umilmente, finché dura la terra, una nuova arca».

Ci prendono per mano, i giusti di Filelfo (L’assemblea degli animali, Einaudi 2020), conducendoci in questo viaggio di «Quattro Pagine» nell’arte di ricostruire. Arte paziente, arte che combina la sapienza di quel che è stato con la visione di ciò che vorremmo fosse, che ci permette di leggere e ridare vita a uno sguardo distrutto ma non perduto. È il lavoro degli anonimi investigatori, che tentano di afferrare quel che resta per ricostruirne il senso; è il lavoro delle anonime, e dimenticate, rammendatrici nei secoli della nostra civiltà («Ore e ore di lavoro, applicazione di capacità tecniche, inventiva, fantasia — scrive Clare Hunter nel suo splendido I fili della vita, Bollati Boringhieri 2020, traduzione di Carlo Prosperi — Le vedo sedute ora dopo ora, mese dopo mese, anno dopo anno, chine su un lungo telaio rettangolare, una di fronte all’altra»).

Serve un po’ di follia per ricostruire città, comunità, vite, luoghi? Servono superbia, cura o lungimiranza? Sicuramente c’è bisogno del tempo giusto (costruire da zero è così più rapido), perché serve un piano, un’idea che vivifichi tra loro tessuti antichi e fili moderni in un processo condotto, scrive Mario Panizza, «dalla sensibilità di operatori in grado di porre in relazione più interessi e valutare nel giusto grado le priorità».

Perché forse la vera sconfitta è perdere senza poter ricostruire; l’incapacità di ridare la vita, di far fruttare la mancanza, di rendere sterile l’odio, come dimostra — a contrario — la vicenda di Irvin Mujčić scampato a 8 anni nel 1992 al massacro di Srebrenica e qui tornato, ce lo racconta Enrica Riera, 22 anni dopo per ricostruire il suo villaggio («Che senso avrebbe potuto avere tutta questa esperienza, se avessi lasciato ai suoi fantasmi la mia città?»).

Perché ricostruire sana. Mutuando le parole di Sergio Massironi, ricostruire — e cioè «superare una tragedia, mettere insieme i cocci, portare con sé una memoria, curarne le ferite» — è possibile perché, e solo perché, «ogni autentica ripartenza viene da lontano. L’energia che la rende possibile è già attiva prima del crollo».

Se dovesse essere un’immagine, sceglieremmo quella della tavola comune, la sera all’ora di cena. Dopo i propositi del mattino, le delusioni e gli slanci della giornata, la persona o le persone si ricompongono attorno al desco. La comunità è ricostruita. Sta a noi far sì che ogni giorno non sia il fegato di Prometeo a beneficio dell’aquila, ma il pane della vita.

di Giulia Galeotti