Impresa e solidarietà
Dal 2016 l’azienda italiana Wami ha realizzato più di 50 progetti idrici suddivisi tra Africa, Sri Lanka ed Ecuador

Difficile come bere
un bicchiere d’acqua

 Difficile come bere  un bicchiere d’acqua  QUO-083
13 aprile 2021

«Ci sono due giovani pesci che nuotano uno vicino all’altro e incontrano un pesce più anziano che, nuotando in direzione opposta, fa loro un cenno di saluto e poi dice: “Buongiorno ragazzi, com’è l’acqua?”. I due giovani pesci continuano a nuotare per un po’, e poi uno dei due guarda l’altro e gli chiede: “Ma cosa diavolo è l’acqua?”».

La celebre storiella di David Foster Wallace sottolinea come e quanto noi uomini diamo per scontate le cose della vita. Abbiamo davanti un tramonto, un bambino ci sorride, ascoltiamo una canzone alla radio e tutto sembra ordinario, banale. Ebbene, non lo è. Non è scontato guardare (e vedere) un tramonto o un bambino sorridere, ascoltare (davvero) una canzone alla radio e sì, non lo è neanche bere un bicchiere d’acqua quando siamo assetati. L’acqua — pensiamo in modo superficiale — è ovunque, ma ne siamo realmente certi?

«In Italia ciascuno di noi possiede in media un’impronta idrica di 6.000 litri. Di questi 6.000 litri d’acqua che l’uomo consuma ogni giorno, esistono una parte visibile (250 litri), consistente nell’acqua che si beve e in quella utilizzata per le attività domestiche, e poi una restante parte virtuale. Proprio la parte virtuale, la grande maggioranza, è l’acqua nascosta dentro i prodotti che usiamo, nei cibi con cui ci alimentiamo, nei vestiti che indossiamo. Evidentemente non ne siamo consapevoli, così come non ci domandiamo se, in riferimento alla popolazione mondiale, l’acqua sia distribuita in modo equo e, ancora, che tipo di esistenza viva quel miliardo di gente che non ha accesso a una fonte potabile, che deve camminare chilometri per approvvigionarsi di pochi litri d’acqua, spesso contaminati».

A parlare, fornendo a questo giornale dati precisi che sono sintomo di una frattura tra due universi, è Giacomo Stefanini, fondatore insieme a Michele Fenoglio di Wami (Water With a Mission), la “b-corp” con sede a Milano che dal 2016 ha l’obiettivo, tramite la vendita dei suoi prodotti e cioè di bottiglie d’acqua Wami, di generare un impatto positivo nel mondo. «La nostra missione — continua Stefanini — è dare valore al gesto di bere acqua: chi sceglie di acquistare Wami sa che contribuirà a portare acqua potabile in luoghi dove tale risorsa non c’è».

Da quando è nata a oggi, l’impresa ha realizzato più di 50 progetti idrici, suddivisi tra Africa (Senegal, Tanzania, Etiopia, Kenya, Madagascar), Sri Lanka ed Ecuador. Oltre 34.000 persone hanno avuto accesso all’acqua. «Siamo partiti con la costruzione di un pozzo per una scuola — dice Stefanini — e in seguito abbiamo messo a punto progetti più consistenti: ecco che costruiamo acquedotti, i quali, da un’unica struttura centrale e tramite le apposite tubature, portano acqua in vari villaggi, nelle case di ogni famiglia che ne hanno accesso grazie al rubinetto che vi installiamo».

I passaggi, pertanto, sono chiari. Una persona che acquista acqua Wami («si tratta di acqua minerale che sgorga da sorgenti delle Alpi Marittime del Piemonte e in particolare da sorgenti del Gruppo San Bernardo») dona 100 litri d’acqua, che corrispondono al quantitativo di ogni singola bottiglia. «Bottiglia riciclabile che — precisa Stefanini — viene distribuita, tra gli altri, in ristoranti e caffetterie di varie città italiane, e su cui è stampato un codice univoco che, inserito sul sito di Wami, fa luce sulle storie delle persone che beneficiano della donazione».

Tracciabilità e trasparenza sono così le parole chiave di Wami, che ha un giovane team ed è pronta a lanciare nuove sfide «come la linea di tè che si affiancherà alle bottiglie d’acqua e sarà costituita da materie prime dei Paesi dove già si agisce».

Giacomo Stefanini tiene inoltre a illustrare le fasi che caratterizzano la realizzazione dei progetti idrici. «Dapprima — afferma — studiamo, anche grazie a partner locali, fondazioni e ong, i territori e i bisogni delle popolazioni; poi costruiamo le infrastrutture (è Wami ad anticipare i costi dell’acquedotto; costi recuperati con la vendita di un certo numero di bottiglie d’acqua) e infine creiamo una rete di utenti in grado di poter rendere autonomo e sostenibile il progetto nel tempo: trasferiamo agli abitanti del villaggio le conoscenze relative alle attività di manutenzione, le buone pratiche».

E nel villaggio l’acqua ha pure e soprattutto a che fare con l’indipendenza delle donne. In assenza di oro blu sono loro a dover farsi carico del suo recupero, tralasciando attività educative o lavorative (ogni giorno camminano per 200 milioni di ore per raccogliere acqua e in molte si ritirano dalla scuola perché la mancanza di strutture igieniche è incompatibile col ciclo mestruale). Adesso invece che le case sono fornite di rubinetto, il tempo può assumere tutto un altro significato. «Abbiamo visto — racconta Stefanini — tante donne, prima impegnate a cercare l’acqua, dedicarsi ad attività imprenditoriali, dall’agricoltura all’artigianato».

«Sophia, ad esempio — prosegue Stefanini —, è una ragazza di Iringa, in Tanzania, e dopo l’arrivo dei nostri rubinetti, ha impiegato il suo tempo lavorando in un laboratorio d’artigianato. È qui che ha conosciuto gli altri impiegati, persone con disabilità, con sordomutismo. Grazie ai suoi nuovi amici, Sophia ha quindi imparato la lingua dei segni e si è fatta loro tramite col resto della comunità, ha cioè consentito ai suoi colleghi e agli abitanti del villaggio di comunicare». Come a significare che senza l’acqua queste persone non si sarebbero mai dette ciao. Un saluto che è scontato per molti, una grande conquista per altri.

di Enrica Riera