Il cristianesimo a confronto con la contemporaneità nell’ultimo libro di Giuseppe Lorizio

Non resti
ma nuovi germogli

Jean-François Millet, «Le spigolatrici» (1857)
12 aprile 2021

L’immagine della spigolatura, esemplificata dal quadro di Jean-François Millet posto in copertina, dev’essere compresa nel modo giusto. Non indica affatto un progetto teologico che si accontenta dei resti che del cristianesimo ha lasciato la modernità, dopo averne fatto abbondante raccolta. Al contrario, il progetto del libro è di ricercare, proprio attraverso il confronto con la contemporaneità, quei “semi del Verbo” che ancora in essa permangono, fecondi, e aiutarli a germogliare di nuovo. Ecco perché il volume è articolato in tre ampie parti, completate da un’appendice. Le tre parti compongono un percorso che va, potremmo dire, dal passato al presente, in direzione del futuro. «Il presente della storia» è infatti il titolo della prima sezione, nella quale s’intrecciano il tema del mito e quello del logos: dove il mito è appunto — seguendo Franz Rosenzweig, un pensatore ebreo che compare spesso nelle pagine di Lorizio — icona del passato e insieme, nella rivelazione ebraico-cristiana, ha paradossalmente «il ruolo di mostrare il carattere non mitico di Dio, dell’uomo e del mondo» (pagina 104). La riflessione che viene svolta in queste pagine è, come viene detto, una sorta di “cripto-teologia”, «esercitata tra le pieghe dell’esperienza religiosa riflessa nella filosofia e nelle cosiddette “scienze umane” e vissuta nel contesto postmoderno del villaggio globale» (pagina 50).

La seconda parte, poi, è intitolata «La storia del presente» e s’interroga sulle condizioni e sulle forme di una “teologia contestuale” (pagina 138 e seguenti), sulle sue possibilità e, soprattutto, sul modo corretto di esercitarla nel mondo contemporaneo. Il contesto in cui viviamo è quello che trova nel Mediterraneo il suo “luogo teologico” privilegiato (pagina 144). Il mare infatti — come mostra Lorizio in un approfondimento teologico che non disdegna di accostare anche testi di Leonard Cohen, Fabrizio De André e Lucio Dalla — offre non solo una dimensione di rischio, ma anzitutto spazi di liberazione. Al centro di questa sezione, e in verità al centro di tutto il libro, c’è il denso capitolo su «La persona fra natura e cultura», dove la visione antropologica tradizionale, messa oggi in questione da tecnologie manipolative e dall’idea di postumano, è opportunamente riportata al suo sfondo teologico: anche se bisogna guardarsi dalla tendenza, oggi sempre più evidente, a trasformare l’idea del Dio persona in quella «di un divino impersonale, non ben definibile e identificabile» (pagina 175).

La terza parte, che offre «Squarci di teologia al futuro», riprende in varie forme il tema dell’immaginario teologico diffuso oggi, a esempio svolgendo, nel primo dei tre capitoli che la compongono, una stimolante trattazione della teologia “fra scienza e fantascienza”. Negli altri due capitoli, Lorizio fa i conti con quel problema del male, posto in relazione con un Dio onnipotente e buono, che sempre più rappresenta, sulla scia della tradizione, un interrogativo di fondo anche per la teologia che verrà. Lo dimostra l’attuale esperienza della pandemia, che rilancia il tema della «banale tragicità del male» (pagina 317).

Anche da questa breve ricognizione del libro, che certamente non rende giustizia alla notevole capacità dell’autore di confrontarsi con i temi del dibattito culturale e filosofico contemporanei, emerge tuttavia con chiarezza il progetto di teologia che viene non solo teorizzato, ma concretamente praticato da Lorizio. È, come dicevo, una teologia che trova nelle riflessioni condotte o espresse su altri versanti culturali — dalla filosofia alla musica, dal cinema alle scienze umane, dalla scienza alla fantascienza — gli spunti per ribadire e rilanciare ciò che nella sua storia essa stessa ha elaborato. È una teologia che ha bisogno del confronto: non già per polemizzare, ma per ricomprendere e indirizzare, raccogliere e rilanciare, come dicevo, i semi del Verbo ovunque disseminati. È una teologia che non sta chiusa nelle facoltà, ma che s’immerge nel mondo: sperimentando così i suoi specifici modi di essere “in uscita”.

Ecco perché, proprio per “spigolare” nel senso spiegato, essa deve stare “in ginocchio”. Si tratta, come dice Lorizio, di un’impostazione «oggi spesso richiamata, ma poco praticata» (pagina 5). È infatti una postura faticosa da mantenere. Come dicono i contadini, “la terra è bassa”. Mettersi in ginocchio, d’altronde, potrebbe essere un altro modo per accomodarsi, per vivere comodamente nel proprio contesto, se ciò non viene fatto al servizio di una missione, consapevolmente assunta. È quello che invece fa Lorizio nel suo libro. È lo stile teologico che egli vi esprime. Ed è il motivo per cui, alla fine, la spigolatura non lo lascia, e non ci lascia, a mani vuote.

Ciò su cui si china il teologo in questi tempi, specificamente, è l’esperienza della pandemia. Non è un caso quindi che ogni capitolo del libro sia inaugurato da alcune riflessioni, evidenziate da un riquadro, che intendono collegare le tematiche di volta in volta affrontate con ciò che stiamo vivendo. Soprattutto, però, non è un caso, e non risulta affatto accessorio, il fatto che la parte finale del libro raccolga, in un’ampia appendice, gli interventi pubblicati da Lorizio su «Famiglia cristiana» e su «Avvenire» durante il periodo del primo lockdown. Essi mostrano, infatti, come la teologia possa concretamente orientare le nostre riflessioni e le nostre scelte anche in un momento tragico come quello presente. Da questo punto di vista, anzi, l’appendice traccia un percorso che completa le riflessioni di teologia contestuale delineate nei nove capitoli del libro.

All’interno della trattazione, comunque, un tema risulta soprattutto centrale per comprendere fino in fondo il progetto di Lorizio. È anzi la questione a partire dalla quale, se affrontata nel modo corretto, una teologia contestuale si rivela possibile e feconda. Si tratta del confronto con la pluralità delle manifestazioni culturali e con i loro assunti di fondo. Si tratta del rapporto tra universalità e particolarità in ambito cristiano. È una questione ben nota, che Lorizio affronta in maniera chiara e originale. Con riferimento a Cusano, a esempio, egli fa riferimento a un “cristianesimo universale”, ossia – etimologicamente – “cattolico”, che in quanto tale «non annienta le differenze, ma tende a comprenderle e a includerle». È una posizione «che si differenzia sia dall’esclusivismo che dal pluralismo relativistico e nella quale l’unità prevale sul conflitto e la diversità, senza omologare o relativizzare la verità, ma ritenendola appunto polifonica e sinfonica, piuttosto che monotona e, pertanto, cacofonica» (pagina 165).

In questo quadro la teologia contestuale può essere compresa e sviluppata secondo quattro tesi di fondo, che Lorizio espone (pagine 144-145). Esse rimandano all’eccedenza della rivelazione rispetto alla Scrittura, al «radicale superamento» della differenza tra “fase costitutiva” e “fase interpretativa” della rivelazione, alla necessità, comunque, della compagnia delle Scritture — affinché la teologia non corra il rischio di parlarsi addosso — e, infine, all’accompagnamento da parte delle stesse Scritture alla dimensione della storia. Tutto ciò rappresenta, da una prospettiva più teorica, ciò che nel libro è in effetti realizzato: sperimentando quel rimando tra particolare e universale, tra pluralità e unità di fondo, che non solo la teologia ma anzitutto la vita cristiana mostra e garantisce.

di Adriano Fabris