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Intervista a Giorgio Mattarella: immigrati, microcredito e big data

Per l’inclusione finanziaria
dei soggetti vulnerabili

Brothers Mohammed Akter, 8, and Mohammed Harun, 10, both of whom were partially burnt in Myanmar ...
07 aprile 2021

«La crisi economica attuale, scaturita dalla diffusione del covid-19, che ha provocato il blocco di intere filiere produttive, ripropone drammaticamente il tema dell’inclusione finanziaria degli individui in condizioni di vulnerabilità economico-sociale, come gli immigrati». Così afferma Giorgio Mattarella, Dottore di Ricerca in Diritti Umani presso l’Università degli Studi di Palermo, nell’intervista concessa al nostro giornale.

«L’inclusione finanziaria come strumento di cittadinanza degli immigrati» è il titolo della sua tesi. Ce ne vuole sinteticamente illustrare i punti più salienti?

Oggi l’inclusione finanziaria è un presupposto dell’inclusione sociale. In un’epoca con sempre maggiori limiti all’uso del contante, l’accesso a un conto corrente è indispensabile per ricevere lo stipendio dal datore di lavoro e per usufruire di misure di assistenza al reddito (si pensi al c.d. reddito di emergenza). Anche l’accesso al credito, dati i requisiti restrittivi imposti agli immigrati per l’accesso al Welfare State, è oggi uno strumento per godere di diritti fondamentali, come ad esempio, quello ad ottenere un’abitazione. Tra gli ostacoli all’inclusione finanziaria degli immigrati gioca un ruolo di rilievo la regolamentazione giuridica, la quale è il portato di una cultura giuridica, quella occidentale, distante dalla cultura degli immigrati; basti pensare al principio della naturale fecondità del denaro, in contrasto con il precetto islamico del divieto di interessi sui contratti di finanziamento. La mancanza di contratti rispettosi della religione islamica obbliga tanti immigrati ad autoescludersi dai servizi bancari appunto per restare fedeli al proprio credo. Un discorso analogo vale per la mancanza di un obbligo di tradurre i contratti nella lingua dei consumatori immigrati, che spesso non comprendono le conseguenze economiche dei negozi stipulati. Per dirla con Habermas, la regolamentazione giuridica è espressione di «una cultura maggioritaria, politicamente dominante, [che] impone alle minoranze la propria forma di vita, negando così l’effettiva eguaglianza giuridica a cittadini di origine culturale diversa».

Il suo elaborato senza dubbio aiuta a riflettere sulla necessità di doversi preoccupare delle persone più vulnerabili e sulla conseguente centralità dell’essere umano. Secondo lei, quali sono gli strumenti più idonei per garantirla?

Ritengo importante garantire ai soggetti socialmente esclusi la possibilità di costruire da soli il loro futuro, finanziando la realizzazione dei loro progetti di vita familiare o lavorativa. Tali individui non chiedono aiuti a fondo perduto o, più banalmente, elemosine, ma una possibilità. In tal senso, uno strumento utile è il microcredito, che deve il suo successo alla fondazione della Grameen Bank in Bangladesh da parte di Muhammad Yunus, vincitore del premio Nobel per la pace. Il sistema ivi creato prevede la concessione in fiducia di piccoli prestiti senza garanzie a soggetti esclusi dal circuito creditizio, soprattutto a gruppi di donne, che, essendo di ammontare contenuto, sono sostenibili, ma, in caso di puntuale restituzione, prevedono l’erogazione di ulteriori finanziamenti; si crea così un sistema virtuoso, che dà fiducia ma al contempo responsabilizza tali soggetti inducendoli a rispettare gli impegni presi. L’importanza del microcredito è già stata sottolineata anche dal Papa emerito Benedetto xvi nell’Enciclica Caritas in veritate, che lo cita tra gli strumenti nella lotta alla povertà ed all’usura, e ritengo quanto mai attuale tale indicazione soprattutto oggi che tali piaghe sono potenzialmente acuite dalla crisi economica dovuta al covid-19. Purtroppo alcuni limiti della legislazione italiana hanno ridotto l’efficacia del microcredito come strumento di inclusione dei soggetti vulnerabili.

Tra le righe, emerge un’interessante analisi sul fenomeno dei Big Data, con riferimento alle situazioni in cui il loro utilizzo, ad esempio, può provocare discriminazioni fra le persone. Cosa ha riscontrato a tal proposito?

Occorre premettere che, non avendo rapporti pregressi con le banche, gli immigrati da poco presenti sul territorio non sono censiti nelle banche dati creditizie; a causa della loro condizione di fragilità, inoltre, possono essere costretti ad accettare lavori in nero; di conseguenza è difficile per loro dimostrare agli intermediari bancari la propria solidità finanziaria per ottenere un finanziamento. Molte voci hanno sottolineato la possibilità di includere nei servizi bancari soggetti “unbanked” utilizzando tecniche di credit scoring basate sui Big Data. Non vi è dubbio che le moderne tecnologie permettano di acquisire una maggiore quantità di dati e di analizzarli più efficacemente. Gli algoritmi tuttavia hanno, in sintesi, un ragionamento inferenziale, cioè possono attribuire rilevanza a qualsiasi dato indirettamente connesso con la solvibilità del consumatore, come la nazionalità, l’etnia, ecc. Il processo decisionale degli algoritmi è poi difficile da ricostruire anche per la tutela della proprietà intellettuale. Ciò nonostante, nella mia tesi ritengo esistente un diritto alla spiegazione della decisione automatizzata da parte di un essere umano.

Con il suo lavoro, lei apre la strada all’opportunità di un “discernimento tecnologico”. In che cosa dovremmo investire per consentire un adeguato sviluppo tecnologico, che sia sempre al servizio dell’uomo, evitando che una decisione automatizzata possa generare eventuali forme di iniquità?

Il modo migliore per evitare iniquità e discriminazioni è garantire la possibilità di un intervento umano effettivo, e non meramente formale, nel processo decisionale. Quando la profilazione di un soggetto ha ricadute sui suoi diritti fondamentali (si pensi, oltre all’accesso al credito, anche al caso dell’utilizzo degli algoritmi nel concorso per i docenti scolastici) ritengo diventi fondamentale la presenza di un essere umano che sia capace di effettuare un bilanciamento tra i diritti in gioco.

E guardando più in generale al fenomeno dei flussi migratori, le è mai capitato di percepire che le leggi “dell’uomo” non sempre riescano ad essere “per l’uomo”?

La visione diffusa della migrazione come problema si riflette inevitabilmente sulle scelte del legislatore. Cito un esempio su tutti: le odierne modalità di acquisizione della cittadinanza. Ritengo irragionevole che ragazzi nati in Italia da genitori immigrati debbano attendere il compimento del 18° anno di età per diventare cittadini italiani perché si tratta di ragazzi nati e cresciuti nel nostro Paese, che parlano italiano, che frequentano scuole italiane, ma che purtroppo non possono considerarsi italiani come i loro coetanei.

Lei si è formato in un collegio dei Padri Gesuiti, che sin dalla loro fondazione, hanno sempre nutrito un desiderio particolare a spingersi sino ai confini della terra. In un certo senso, con il suo progetto di ricerca, lei ha operato analogamente. C’è qualche elemento specifico della spiritualità ignaziana che l’ha accompagnata nel suo modo di agire?

Ho studiato presso il Centro Educativo Ignaziano di Palermo dalle scuole elementari fino al liceo classico. Tra i valori che questo percorso mi ha trasmesso vi è senz’altro l’importanza della conoscenza, della riflessione, e in definitiva dello studio, non fine a se stesso ma funzionale allo sviluppo di una propria capacità critica. Lo studio delle problematiche del fenomeno migratorio mi ha aiutato a respingere la visione distorta del fenomeno migratorio come problema per le società che accolgono i migranti, e a comprendere invece che ogni essere umano, se ne ha la possibilità, può rivelarsi una risorsa per la società. Rapporti di Banca d’Italia, del resto, hanno già spiegato che gli immigrati costituiranno in futuro un’importante forza lavorativa nei Paesi occidentali, dato il drastico calo delle nascite.

Il valore più importante che ho appreso negli anni presso i Padri Gesuiti è però l’empatia, la capacità di far proprie le sofferenze altrui e di dare il proprio piccolo contributo; ricordo in particolare quando a scuola si faceva la raccolta di viveri e indumenti per i più bisognosi. Spero che la mia tesi possa contribuire a mettere al centro dell’attenzione il tema dell’inclusione dei soggetti vulnerabili, in un momento storico in cui, citando Papa Francesco, purtroppo vige la cultura dello scarto.

di Marco Russo