Memoria del “primo amore”

Giotto «L’ultima cena» (1303-1305, Padova, Cappella degli Scrovegni)
01 aprile 2021

All’interno della Settimana santa, il Giovedì si offre in modo particolare ai sacerdoti come opportunità per soffermarsi di fronte al Signore ripensando alla loro vocazione e alla loro missione, alla luce della liturgia della messa del Crisma e di quella in Coena Domini, per concludere la giornata in spirito di ringraziamento per la grandezza di un dono ricevuto indipendentemente dai meriti personali, segno e conferma dell’amore e della fiducia che Dio ripone in coloro che Egli chiama.

Vocazione e missione per i sacerdoti sono una realtà unitaria, che inizia «sin dal seno materno» (Is 49, 1), chiede di essere ricevuta e accolta (1 Sam 3, 10), in vista di un invio al servizio della Chiesa e del mondo (Is 6, 8).

A partire da questi tre versetti dell’Antico Testamento desidero mettere in evidenza alcuni tratti dell’identità e della spiritualità sacerdotale, come motivo di incoraggiamento e di sostegno per i tanti preti che vivono con gioia e generosità il loro ministero.

1. Come ricordano le parole di Isaia (49, 1) Dio conosce coloro che chiama sin dal seno materno, cioè da sempre, e — si potrebbe dire — li prepara passo a passo a ricevere la chiamata, attraverso relazioni, incontri ed esperienze. La Congregazione per il clero è solita per questo ricordare che la formazione dei seminaristi inizia a casa, in famiglia, sin da quando sono bambini, così che nel corso degli anni si modella l’uomo che un domani potrà entrare in seminario e poi diventare sacerdote.

Ricordare che Dio lo conosce in profondità e da lontano, è fondamentale per aiutare il prete a non dubitare delle proprie forze — Dio non chiama nessuno che non sia in grado di rispondere e di perseverare — e al tempo stesso a non contare esclusivamente su di esse — Dio non chiama una volta per sempre, per poi sparire, ma resta accanto e accompagna il chiamato lungo tutta la sua vita.

Quando si ha troppa fiducia in se stessi, o troppo poca, si perde il contatto con la sorgente della vocazione, Dio, e facilmente ci si può smarrire — che dolore le tante pratiche di dispensa! Se invece si persevera nel ricordo coram Domino della propria storia umana e vocazionale, «non perdendo la memoria del primo amore» (Papa Francesco, meditazione a Santa Marta, 30 gennaio 2015), è possibile riprendersi da sbandamenti e scoraggiamento, e recuperare con rinnovata fiducia il filo e le radici della propria esistenza sacerdotale.

2. Se è vero, poi, che Dio inizia a chiamare sin dalla più tenera età e continua per tutto il corso della vita, va altresì considerato che c’è un momento specifico in cui ogni futuro prete, come il giovane Samuele (1 Sam 3, 10) si sente chiamare per nome e, magari dopo qualche dubbio e incertezza, si trova di fronte a un aut-aut, tornare a dormire o rispondere «Parla, perché il tuo servo ti ascolta».

La vita di un prete si basa sull’ascolto. Ascoltare Dio — nella preghiera e nella meditazione della Parola — in occasione delle grandi chiamate, ma anche nelle circostanze quotidiane, che richiedono discernimento e decisione. Ascoltare i confratelli, che non di rado possono cogliere momenti di stanchezza e di abbattimento, e costituire una spalla robusta su cui sostenersi. Ascoltare il vescovo, attraverso cui arriva al prete la voce della Chiesa, liberandolo dalla tentazione di comportarsi come un “libero professionista del ministero”, che dice e fa quel che gli viene in mente. Ascoltare, infine, il popolo di Dio che vive accanto al suo pastore, lo conosce, lo vede vivere ogni giorno, e ne percepisce spesso tanto le fatiche quanto le gioie.

Dio non cessa mai di parlare ai Suoi preti, di far sentire loro la Sua vicinanza e il Suo sostegno, purché essi non smettano di ascoltare Lui, persi dietro a paure, “idoli” o “fantasie” varie (pensiamo, come immagine famigliare, a uno dei dialoghi di don Camillo col suo Crocifisso, quando il buon parroco si rallegra nel sentire di nuovo, dopo un tempo di silenzio la voce di Gesù, il quale però lo avverte: «Non ho mai smesso di parlarti, ma tu non mi sentivi perché avevi le orecchie chiuse dall’orgoglio»).

3. Sapersi conosciuto e accompagnato da Dio, infine, fa sì che un prete possa ripetere instancabilmente, come Isaia, «Eccomi, manda me!» (Is 6, 8). La vocazione al ministero ordinato è naturalmente e costitutivamente orientata alla missione evangelizzatrice, al servizio del Popolo di Dio e di tutti coloro che ancora non conoscono il messaggio e la persona di Gesù.

Non si tratta di una chiamata “intimistica” o solo sacramentale, che fa ripiegare su se stessi, in un rapporto con Dio che diventa escludente, e fa considerare le esigenze della missione e le persone come una sorta di “disturbo” o di intralcio alla propria quiete personale. Allo stesso modo, occorre che il prete non dimentichi di essere inviato da parte di Dio, e non da qualche ong, o gruppetto ideologizzato o di élite, o anche da se stesso, nel perseguimento di fini personali, magari leciti, ma estranei alla sua missione.

Servire, “lavare i piedi” — il più umile dei servizi, quindi — in nome e sull’esempio di Gesù, facendo memoria dell’origine del ministero, Cristo stesso, del suo fine, rendere presente — sacramentalmente o nella testimonianza di vita — Cristo, nonché del suo destinatario, ogni fedele e l’umanità intera, e la Chiesa, particolare e universale. Questo potrebbe già da solo essere un sintetico programma di vita e di ministero sacerdotale, in grado di ravvivare in ogni prete il dono e la gioia della vocazione.

Il Giovedì santo, quindi, invita a pregare in special modo per i sacerdoti, perché siano sostenuti nella loro missione e si dedichino a essa con sempre maggiore generosità, in obbedienza a Cristo e alla Chiesa, ma esorta anche i sacerdoti stessi a pregare per le persone e le situazioni loro affidate, così da poterle amare e servire, con gioia e creatività, come parte integrante del dono ricevuto con la vocazione.

di Beniamino Stella
Cardinale prefetto della Congregazione per il clero