Nel ricordo di Marco Follini

Moro: lezione sulla fragilità
del potere

 Moro: lezione  sulla fragilità del potere  QUO-062
17 marzo 2021

«Aldo Moro andrebbe anche sottratto alla cerimonia», è netto nel suo ricordo Marco Follini che con il leader democristiano intrecciò un rapporto intenso a dispetto dei quasi quarant’anni che li dividevano, «Moro infatti era una persona che stava sul terreno della realtà, della controversia, la politica per lui non era un campo di battaglia ma non era nemmeno un prato fiorito. Ne aveva una visione realistica e anche un po’ cruda». Follini vuole mettere a fuoco la parabola politica di Moro per comprendere cosa oggi resta vivo di quella esperienza, qualcosa «che è esattamente ciò che manca al nostro tempo: l’ascolto, l’attesa, la misura, qualche volta anche il silenzio. Tutte cose che lo rendevano inattuale già nella sua epoca. Un uomo consapevole delle avversioni a cui andava incontro, accusato di essere fumoso e inconcludente, eppure è lui il protagonista delle due grandi svolte di quegli anni: il centrosinistra e la solidarietà nazionale».

Il ricordo scende più sul profilo personale, sullo stile, profondamente intriso delle ragioni della fede, dell’uomo politico: «Era un uomo curioso, attento verso il prossimo, capace di ascoltarlo, ricordo colloqui che erano fatti soprattutto dalle sue domande, perché non era abituato alla ritualità degli incontri superficiali né tantomeno a predicare; vedeva le persone più raramente ma in modo più approfondito. Con tutti era così, come se volesse indagare insieme a quelle persone alla ricerca di segni di novità». Non solo curioso ma anche ansioso: «Sì perché era leale a quel principio di non appagamento che governa il rapporto tra i cristiani e la politica, e questa ansia gli imponeva di essere compassato, misurato, di non disperdere il tempo né le parole. Non c’era mai nulla di casuale in lui. Aveva una grandissima attenzione alla sfera religiosa e alla spiritualità della politica; infondeva dentro la contesa politica i suoi valori, le sue convinzioni, i suoi sentimenti, il suo senso di umanità e aveva cura di mettere al riparo la Chiesa dagli errori politici dei cattolici impegnati nella sfera pubblica, atteggiamento che portò anche a qualche attrito con parte della gerarchia ecclesiastica dell’epoca, attrito che lui poteva affrontare con la coscienza tranquilla perché sapeva quanto fosse forte il vincolo dell’appartenenza a quel mondo e a quel sistema di valori».

Qual è la lezione più grande, oggi, di Aldo Moro?

«Se dovessi riassumere in poche battute, partendo dal mio ricordo personale, direi che era un uomo indubbiamente autorevole, solenne, anche potente, ma trapelava da lui il sentimento della fragilità di quel potere. Era un uomo fragile. Io allora ragazzo lo guardavo come un uomo che era un monumento della politica di quegli anni, ma quel monumento rivelava tutta la fragilità della costruzione repubblicana. Che il potere fosse fragile: io penso che questo sia stato il più grande insegnamento che ha lasciato a chi poi successivamente si è trovato a confrontarsi con la sua figura e con il suo lascito. In lui c’era un tormento che evocava la fragilità del potere. Che è il segno della democrazia. Il potere monumentale appartiene ai regimi. Lui sapeva invece di essere su un altro terreno, quello del consenso e del potere condiviso e quindi della massima incertezza del potere. Quando usa la metafora del castello, è significativo che il castello appartiene sempre agli altri, lui non si sente parte del castello, e quando ci sta dentro invoca la necessità di aprire porte e finestre per far entrare il vento che soffia nella vita. Sono immagini un po’ letterarie che alludono però a un inconscio profondo. Moro sapeva che la politica per sua natura finisce sempre male e quel male va corretto, emendato, riscattato, ma sapeva anche che nella politica non c’è l’assoluto, c’è il relativo e che la perfezione non appartiene a quel mondo, e lo dice l’uomo che in quel momento è il più potente d’Italia».

di Andrea Monda