«Lei mi parla ancora» di Pupi Avati

La promessa d’immortalità

 La promessa d’immortalità  QUO-062
17 marzo 2021

Due giovani sposi, nel giorno delle nozze, si dichiarano immortali giurandosi fedeltà. Dopo 65 anni vissuti insieme, li ritroviamo nel loro letto che si tengono per mano e ricordano quella lettera che lei scrisse per lui, secondo la quale se si fossero voluti bene per tutta la vita, «in tutti i luoghi e in tutte le stagioni», sarebbero vissuti per sempre. La realtà sembra ora smentirli, perché un malore porta la donna a un ricovero in ospedale e a una rapida morte. Non per questo il loro amore finisce: lo strazio dell’anziano rimasto solo trova conforto nel mantenere un legame con la moglie scomparsa, sentendola ancora vicino a sé.

Non stupisce che un regista fuori dal coro come Pupi Avati abbia scelto di raccontare una storia d’amore così coraggiosamente in controtendenza rispetto alla società e al cinema odierni. La bella sorpresa è invece il consenso unanime, sia di pubblico che di critica, ottenuto dal suo film Lei mi parla ancora, tratto dal libro omonimo di Giuseppe Sgarbi (La nave di Teseo). Ai dati record di ascolto di Sky (la piattaforma ha anticipato l’uscita nelle sale, che non riapriranno il 27 marzo) hanno fatto eco le recensioni lusinghiere di tutta la stampa, di qualsiasi orientamento politico e indirizzo culturale. Un risultato eccezionale per un film commovente basato su una promessa di immortalità. «Immortalità è una parola che non usa più nessuno», obietta il giovane ghostwriter che raccoglie le memorie dell’anziano protagonista, ma quest’ultimo gli risponde «È bella, però!».

Lo scrittore, interpretato da Fabrizio Gifuni, è il volto dei nostri tempi affannati e confusi: separato con una figlia che non vede quasi mai, ha una nuova compagna che non sembra entusiasmarlo, si arrangia con lavori precari e nutre l’ambizione che gli pubblichino il romanzo che ha scritto e che tutti gli editori gli hanno respinto. Se accetta di ascoltare il vecchio Nino è perché si tratta del papà di Elisabetta Sgarbi, che in cambio gli ha promesso di leggere e prendere in considerazione il suo libro. Il conflitto tra i due è inevitabile, perché Nino rappresenta, al contrario, la bellezza dei valori che abbiamo dimenticato, non solo per il «per sempre» coniugale, ma per una vita circondata dalla bellezza della natura (la pesca sul Po) e della cultura, in quella casa (la location è la vera casa Sgarbi di Ro Ferrarese) piena di libri e di capolavori d’arte, frutto del collezionismo sapiente del figlio Vittorio. Iniziata nel peggiore dei modi, la convivenza tra l’anziano vedovo e il ghostwriter che lo sente talmente estraneo da dichiarare di non avere niente in comune con lui darà i suoi frutti. Il segreto della riuscita del film sta nella capacità tutta avatiana di mantenerlo equidistante dalla retorica della melensa consolazione e dalla tentazione di crogiolarsi nella tristezza.

Per rimanere in equilibrio tra i due abissi, sfrutta la magia del cinema, sublimando i pensieri e le ansie dell’ottuagenario in una dimensione onirica che si fonde e si confonde con i ricordi e con la realtà. Una potente carica evocativa avvolge le sequenze degli anni Cinquanta, con la balera sul fiume e l’amicizia per il cognato Bruno, un professore di lettere con il quale gareggia a indovinare i versi di Ariosto, Leopardi e Pascoli. Il Nino anziano parla con la sua Rina ancora giovane, come il vecchio medico del capolavoro di Ingmar Bergman Il posto delle fragole. E Bergman è poi citato esplicitamente con una sequenza tratta da Il settimo sigillo: il duello tra il cavaliere e la morte, proiettato in un cineclub all’aperto, viene commentato da Bruno come un lamento per il silenzio di Dio da parte del regista svedese, convinto che senza Dio manchi il senso di tutto. Aperto con leggerezza, nello stile dell’Avati jazzista, dalla musica dei dimenticati Radio Boys, il film si chiude con la battuta chiave di Nino, dopo che anche lui avrà raggiunto Rina e Bruno nel loro Paradiso sulle rive del Po: «Ora non dobbiamo più aver paura».

Se il film ha emozionato ogni genere di spettatore, gran parte del merito va agli attori, soprattutto a uno straordinario Renato Pozzetto, magistrale in un registro drammatico che stupisce non abbia mai utilizzato in precedenza. Insieme a lui la sempre grande Stefania Sandrelli e, perfettamente credibili con i loro volti da anni Cinquanta, Isabella Ragonese e Lino Musella, che interpretano Rina e Nino da giovani. Tra scenografie di struggente suggestione e musiche bellissime di Lucio Gregoretti, sospeso tra il crudo realismo della nostra finitezza e il balsamo rigenerante del sogno e dei ricordi (siglato da una citazione di Pavese), il film centra il difficile bersaglio di trasmettere contemporaneamente pace e inquietudine, in un corto circuito che avvolge lo scandalo della morte con il senso del sacro e inserisce il culmine della tristezza in un clima di felicità.

di Fabio Canessa