Quando Sofocle scrisse l’«Edipo re»

Creare un modello
senza saperlo

Antoine-Denis Chaudet «Edipo bambino viene nutrito da un pastore» (1810)
04 marzo 2021

Apre un baratro davanti al lettore l’Edipo re di Sofocle. Altri drammi, come la Medea o le Baccanti stanno meglio sulla scena, emozionano e commuovono di più. Eppure l’Edipo re ha una capacità unica nello scavare nell’animo umano e nel porre l’uomo di fronte a una sorta di vuoto cosmico che sembra inghiottirlo senza possibilità, almeno apparente, di redenzione. Per Giulio Guidorizzi, insigne grecista e fine traduttore, l’Edipo re è molto più che un’opera teatrale, come sottolinea nell’interessante e coinvolgente libro Sofocle. L’abisso di Edipo (Bologna, il Mulino, 2020, pagine 153, euro 14). Il drammaturgo greco creò un modello, «e non lo sapeva». Questo dramma, infatti, ha finito per configurarsi, nel corso del tempo, come un punto di riferimento per pensatori della grandezza di Aristotele e di Freud: il primo riconobbe nell’opera un esempio di perfetta tragedia; il secondo la elesse a guida per sondare i labirintici meandri dell’inconscio.

A Voltaire, ricorda l’autore, questa tragedia non piaceva, riscontrandovi troppe irragionevolezze e troppe illogicità. Lamentava poi scarsa lucidità nei personaggi, «tutti sballottati dal caso e non padroni di sé». «Invece a noi piace per lo stesso motivo per cui il filosofo la criticava» rileva Guidorizzi, cui va ascritto anche il merito di usare un linguaggio al contempo garbato e semplice. «Sono appunto il silenzio — scrive —, la rimozione, l’essere in bilico tra il sapere e non sapere, tra dire e nascondere, la sotterranea e continua tensione che ce la rendono affascinante». Nell’opera tutto è chiaro subito, eppure bisogna arrivare alla fine perché il grande mistero si sciolga. La soluzione è lì, evidente sin dall’inizio: eppure nessuno la vede.

Protagonista di un viaggio verso il centro di se stesso, Edipo riesce, pur tra il groviglio di rabbie e angosce, a trovare il coraggio di svelare il suo segreto fino in fondo. Così facendo, non può che cadere dentro il suo personale abisso. «Non ha — nota acutamente Guidorizzi — la scaltrezza di Ulisse, non sa (non vuole) evitare la sua Cariddi né uccidere il suo Ciclope». Sin dalla prima lettura si rimane «intrappolati» da quest’opera. «Intrappolati è la parola giusta» sottolinea il grecista. Infatti Edipo è intrappolato dal suo destino, «e noi siamo intrappolati da Edipo».

Nell’Edipo re emergono e poi si impongono non solo i grandi temi che rendono senza tempo la tragedia greca — il destino, la volontà, le passioni, lo scandalo dell’ingiustizia —, ma anche domande che accompagnano l’identità dell’uomo contemporaneo. Un uomo che «cavalca orgogliosamente il progresso che lui stesso ha costruito, ma è anche consapevole che non tutto, forse nemmeno molto, dipende dalla sua intelligenza e che nelle profondità dell’anima ci sono zone ingovernabili».

Sortisce effetti devastanti la scoperta che fa Edipo. Tutto nasce da un’epidemia — evento di grande forza simbolica e oggi terribilmente attuale — che smantella non una città, Tebe, ma anche le certezze dei protagonisti. A partire dalla peste, tutti gli abitanti e il loro re Edipo cominciano a guardarsi in modo diverso. All’inizio Edipo è giudicato «il migliore degli uomini»: ha salvato già una volta la città, potrebbe quindi farlo ancora. Egli stesso è convinto di essere ben saldo al centro della polis, e di se stesso. Ma la storia intraprenderà un corso ben diverso e un nuovo scenario verrà a spezzare gli antichi equilibri. Tra le prerogative di un capolavoro — afferma Guidorizzi — c’è quella di trovare le parole per dire l’indicibile. Per la prima volta, l’Edipo re dichiara ciò che per ciascuno di noi è terribile da ascoltare, cioè che «l’esperienza umana non è governata da regole, ma è una matassa inestricabile di fili dei quali non si può afferrare il capo». Questa inquietante dimensione esistenziale trova in Edipo l’esemplare incarnazione, poiché egli viene a identificarsi nell’uomo che ha cercato di dipanare, con indomito coraggio, il suo filo e che invece si è perso, tragicamente, dentro la matassa.

di Gabriele Nicolò