«L’arte di legare le persone» di Paolo Milone

Finalmente

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23 febbraio 2021

Finalmente. Finalmente un libro che racconta la malattia mentale per quello che realmente è: un’enorme sofferenza, un grande enigma impastato di passione, amore e vita. Con L’arte di legare le persone (Torino, Einaudi 2021, pagine 200, euro 18,50) — nato dai quarant’anni in cui l’autore ha lavorato in un centro di salute mentale prima e, poi, in un reparto ospedaliero di psichiatria d’urgenza — Paolo Milone lenisce la nostra rabbia. Cura la nostra insofferenza verso quei racconti che edulcorano, infiocchettano e quindi snaturano; ma anche verso quelle narrazioni che (volendo rovesciare il politicamente corretto) raccontano la malattia mentale con la nota monocorde della durezza, del nero. Dell’assenza.

Finalmente un libro che non traccia separazioni tra noi e loro; tra il malato e il sano; tra chi sta dentro un centro mentale e chi ne ignora addirittura l’esistenza. E questo non in nome dell’uguaglianza vuota («Negare l’esistenza della follia dicendo che siamo tutti uguali è annullare la diversità dell’altro, rendendo tutto grigio»), ma perché il disagio mentale può essere raccontato — prima ancora che affrontato — solo con una presa in carico collettiva. Non è questione di Tizio e di Caio, ma di noi con Tizio, di noi con Caio, di noi come famiglia, rete, come comunità.

Finalmente, infine, perché con L’arte di legare le persone Milone non sale mai sulla cattedra del bianco e del nero («Il vasto mondo della Psichiatria si spalanca quando vi avvicinate a due metri dal paziente. Se vi avvicinate al metro, diventa fantasmagorico. Se vi avvicinate oltre, diventa un inferno»). Milone ci affida le sue domande, il dolore, i Tso, i sorrisi, le scoperte, gli errori, le strade sassose, le solitudini che ha incontrato. La differenza tra legare e abbandonare, tra parlare seduti alla scrivania o immersi nel magma, tra il padre della paziente che maledice il medico perché la figlia ha ceduto e la madre di quella stessa ragazza che lo ringrazia per tutto ciò che ha fatto. Con le pagine di questo libro Paolo Milone ci affida le montagne russe della vita.

Una scrittura nuda, poetica, vera, lucida ma caldissima quella di Milone, perfetta (il recensore, dunque, cede al bianco e nero, a riprova di come ogni grande libro superi chi lo presenta). Una scrittura perfetta per quell’universale Reparto 77 che è mistero, sgomento, ironia, angoscia, sofferenza a spirale, esasperazione, silenzio claustrofobico, urla e prossimità assoluta.

Ma solo se la vita fuori e dentro si scambia, si mischia («Non chiedermi Anna, la sera, perché ho la faccia stanca. Non è per la follia. La follia è un giardino dove abbevero i miei cavalli stanchi, sciolgo i calzari, siedo all’ombra, e lascio riposare lo sguardo su colline lontane»): solo così sapremo davvero ascoltare.

di Giulia Galeotti