# CantiereGiovani
Sul complesso rapporto tra genitori e figli

Solo parlando
le ferite si cicatrizzano

Una scena del film «Ladri di biciclette» (1948)
15 febbraio 2021

«Dopo tutti questi mesi di chiusura, come stanno i ragazzi? Chi si prende cura delle loro ferite? E delle nostre?». Con queste domande Alessandro Vergni concludeva il suo articolo in Cantiere giovani della scorsa settimana. E “una ragazza” gli ha risposto.

I ragazzi non stanno bene. E questa non è una novità. A rispondere a questa domanda, però, non è un’adolescente arrabbiata ma una ventiquattrenne che sta seriamente ponderando la rinuncia agli studi. Le esperienze non combaciano, ovviamente, ma tra la mia esperienza e quella di una liceale offuscata dall’incertezza non credo la differenza sia poi così tanta... o almeno credo (ancora lo spero?). Posso entrare più facilmente nelle sue scarpe però, questo sì, e la “me” diciassettenne aveva bisogno di andare a scuola. Ma un bisogno matto, di quelli viscerali s'intende (e non esagero). Quel mondo, per quanto odioso e tra alti e bassi, era tutto; e anche se le lezioni erano impossibili e le interrogazioni pure peggio, almeno il sorriso lo si strappava alla prima gomitata al banco, alla sferzata di una sfida a chi ne faceva qualcosa della sua giornata, a chi si attivava per primo per risollevare il morale.

La noia, la rabbia, scomparivano così, all'istante. Questo per dire che la dad, ovviamente, è un disastro che arranca da mesi; che cammina ma resta immobile, statica, contro-producente all’ennesima potenza perché un adolescente non è statico. Snervante forse, ma statico? Mai.

Gli adolescenti fermi e distanti non ci sanno stare, e le ferite che ne conseguono sono concrete, restano sottopelle, scontrose, elettriche perché annidate ancor più addentro. Eppure sono vulcaniche, si scaraventano rabbiose alla prima occasione, alla prima serata in piazzetta tra sigarette, motorini e flash da “diretta” obbligata. E si ammasseranno tra qualche anno: Mostri neri che crescono.

Dicevamo: i ragazzi non stanno bene. Anche se chi risponde ha ventiquattr’anni. Ma tanto non cambia nulla: come la “me” diciassettenne non sapeva cosa farne della propria vita, a ventiquattro sembra che quel poco fatto sia già tutto da buttare. E le domande sono le stesse, poi. Non sono cambiate, anzi si sono incancrenite, perché le ferite, se non curate, si infettano, si incancreniscono. Di nuovo: Mostri neri.

E chi si prende cura di queste ferite, dunque? Chi si prende cura delle ferite dei ragazzi? Noi stessi, per primi; noi stessi con gli altri, con voi genitori. I ragazzi, poi, soprattutto con voi genitori.

Ecco, in realtà non ho la minima idea di cosa significhi essere genitore (al massimo conosco l’ansietta del tenere un bambino per qualche ora sperando non muoia); ma credo che nel rapporto tra genitori e figli vi sia già tutto il necessario per la cura di queste ferite. Delle ferite dell’uno come dell’altro, s’intende, perché sicuramente anche voi genitori ne avete parecchie addosso.

E l’unica risposta che posso dare, o meglio, l’unico appello che posso fare e che forse dà maggior senso a questa lettera senza capo né coda, è proprio a voi genitori: per favore non abbiate paura di parlare ai vostri figli. Non giudicatene i modi e non aspettatevi risposte sincere tutte e subito. Abbiate pazienza, piuttosto, di quelle palesemente fasulle, irritate, scontrose, arroganti. Non abbiate paura dei litigi e non allarmatevi dei silenzi lasciati appesi perché i ragazzi comunicano con tutto, non solo con le parole. E se una volta non basta continuate, sforzatevi di forzare, di corrergli incontro anche quando sembrano assenti, irraggiungibili o rispondono male perché «ma che ne volete sapere voi, dovete farvi gli affari vostri!».

Non rinunciate al campo, che il silenzio va bene solo quando non è gravido di preoccupazioni. E allora parlate che le ferite dell’uno come dell’altro si sanano con le parole, con le virgole, con gli sguardi silenziosi cercando l’intesa, un terreno comune. Parlate perché solo parlando le ferite tornano in superficie e cicatrizzano. E le cicatrici, parlando, si riassorbono meglio.

di Paola Petrignani