IV Convegno internazionale su Chiesa e Musica

Tra culto e cultura

Jan e Hubert van Eyck, «Angeli cantori» (dal Polittico dell'Agnello Mistico Cattedrale di San Bavone, Gand, 1426-1432)
06 febbraio 2021

La musica sacra non esiste. O almeno non ne esiste una sola. Il testo, che sia verbale o musicale, dipende dal contesto. E forse anche per questo proprio «Testi e contesti» è il tema scelto dal Pontificio Consiglio della cultura per il iv Convegno internazionale su Chiesa e Musica, conclusosi ieri al termine di due giorni di lavori che hanno visto la partecipazione di oltre 100 studiosi collegati dai 5 continenti.

«La sfida comune è di ascoltarci a vicenda», ha sintetizzato Papa Francesco nel video-messaggio che ha aperto i lavori. «La Parola è il nostro “testo”, la comunità il nostro “contesto”», ha continuato. E se è vero che donde hay música, no puede haber cosa mala (cit. Cervantes) allora il confronto tra musicisti non può che portare a un arricchimento reciproco.

Ma perché il ragionamento non si disperda in mille rivoli autonomi e non comunicanti c’è bisogno di un’idea forte dalla quale partire, una specie di tema portante, come quello che nel primo movimento delle sinfonie di solito viene esposto dai violini dopo l’introduzione del “tutti” e che nei concerti per pianoforte e orchestra viene affidato alla tastiera. Qualcosa di chiaro, netto, assertivo, un’idea che magari poteva venire anche a noi, uno sguardo trasversale su qualcosa stava lì ma non l’abbiamo vista: «Culto e cultura hanno lo stesso etimo».

«Lo sapevo anche io», direbbe uno di quelli che uscendo da una mostra di Duchamp si lamentano perché i ready made stanno anche a casa sua ma non valgono niente.

È sempre una questione di contesto. In questo caso a mettere al centro della discussione il verbo colere, che significa sia «coltivare» che «venerare», è stato il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e, come in ognuna delle quattro edizioni, primo relatore. «Il legame culto-cultura è ovviamente postulato già dalla comune base lessicale che abbraccia in sé una semantica mobile, dato che il “coltivare” parte dal terreno da dissodare ma può ascendere fino ai sentieri d’altura della ricerca intellettuale che “coltiva” i vari settori del sapere. Con l’ulteriore accezione “venerare”, rimanda alla tensione umana verso il trascendente». Del resto «la liturgia comprende strutturalmente uno sguardo verticale in tensione verso il mistero e uno sguardo orizzontale destinato a coinvolgere un’assemblea i cui membri sono spalla a spalla». A volte basta una parola.

E se la cultura e il culto camminano fianco a fianco allora diventa evidente che non può esserci un unico modo per affrontare il sacro in musica. E forse non c’è mai stato se, come sottolinea ancora Francesco nel suo messaggio, «l’eredità musicale della Chiesa è assai varia e può sostenere, oltre alla liturgia, anche l’esecuzione in concerto, nella scuola e nella catechesi, e anche nel teatro». In fondo già Bach, quando trovava un tema che funzionava per definire un determinato “sentimento” lo usava indifferentemente in cantate sacre o in opere profane. (In composizione non si butta niente).

Ora che il mondo è diventato più piccolo le differenze sono più evidenti, le culture sono tante, sono di fronte a noi ogni giorno, non serve nemmeno viaggiare. Alcune cose saltano agli occhi. In Europa l’emotività è quasi una colpa, qualcosa da tenere a bada. In Africa è inseparabile dalla preghiera. Mentre lo racconta, Saba Anglana, cantautrice nata in Somalia da un padre italiano e una madre etiope, mostra alcune immagini. Cori, funerali, feste. Nessuno sta fermo, mai, nemmeno nelle foto. Il corpo fa parte del suono, lo accompagnava. «Quando chiedo a un masai di cantare lui comincia a danzare».

Il processo che ha portato all’accoglienza delle lingue locali nella liturgia, ricostruito dal sacerdote irlandese Enda Murphy, nella sua relazione «Dal Latino al locale», si è avviato anche in musica. Si può provare a orientarlo perché non esca dai confini della «santità e la bontà delle forme», ma non si può fermare.

di Marcello Filotei