LABORATORIO - DOPO LA PANDEMIA
Come Alice abbiamo attraversato il confine di una nuova dimensione: con quali strumenti?

Oltre lo specchio

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01 febbraio 2021

Pubblichiamo l’introduzione del libro «Oltre lo specchio di Alice. Governare l’innovazione nel cambiamento d’epoca» (Guerini e Associati, Milano, 2020, pagine 192, euro 16,50).

È un pomeriggio di pioggia torrenziale del marzo 2020 e nella mia città, Milano, covid-19 sta mietendo più vittime dei bombardamenti del 1944. Ho tempo per pensare. La materia non manca. In televisione Papa Francesco parla a una piazza San Pietro deserta: «Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre strade e città. Ti imploriamo Dio, non lasciarci in balìa della tempesta». La pandemia, rifletto, fa sembrare quasi laica questa benedizione Urbi et Orbi, perché in balìa della tempesta lo siamo tutti.

Ma come è potuto succedere? Sono nato nel 1928 e di avvenimenti inattesi ne ho visti diversi. Quando, trentenne, scrissi col mio vecchio amico Giacomo Corna Pellegrini, che purtroppo non c’è più, Le redini del potere, partivamo dal fenomeno fisico più dirompente: la bomba atomica e la considerazione di quali rischi aveva corso il potere decidendo di impiegarla. Nei decenni successivi si sarebbero avvicendate due rivoluzioni industriali e avremmo sequenziato il Dna, conversato con l’intelligenza artificiale, coltivato relazioni via Facebook e minacciato guerre su Twitter, fino a interrogarci finalmente sulle applicazioni della fisica quantistica. Nonostante tutto, però, siamo ancora qui, a constatare che la bomba rimane emblematica per il problema del potere nel divenire della storia, che sembrava avere nella guerra il suo motore. Un rovello intorno al quale mi sono cimentato nel corso della vita, quando agli interrogativi giovanili si è aggiunta l’esperienza della responsabilità politica e istituzionale: un po’ a Milano negli anni Cinquanta, un po’ in Lombardia, un po’ in Italia, un po’ nei circoli internazionali.

Ho potuto intuire i contorni di una realtà e ho cercato di coinvolgere altri per vederla meglio. Più il tempo passava, più mi rendevo conto che la problematica in cui ero immerso, il rapporto tra sapere e potere in un mondo profondamente innovato, stava diventando sempre più critica nella prassi delle istituzioni che ho attraversato. Non era più la vecchia storia, plus ça change, plus c’est la même chose. Stavamo cambiando sul serio; il dibattito, già aperto, non era di quelli consueti: ed ero d’accordo con il Papa quando dice: «Attenzione, non siamo in un’epoca di cambiamenti bensì in un cambiamento d’epoca». Greta Thunberg parla all’Onu, migranti annegano in mare, Londra ha scelto la Brexit, la Cina sfida l’America ed entrambe puntano a raggiungere Marte; e poi l’algoritmo, il potere dei social, la rivoluzione nelle scienze della vita e la fisica quantistica obbligano a inforcare lenti nuove. In mezzo a tutta questa confusione, paragonabile forse a ciò che sarà sembrato ai coevi il passaggio dal mondo tolemaico al copernicano, ecco covid-19, motore e ciliegina sulla torta. Ma quale torta? Non tanto la storia attorno a me, quanto i miei pensieri, che hanno bisogno di ordinarsi. La classica situazione in cui vien voglia di parlarne. Quando nel 1959 ci inventammo Le redini del potere; poi quando ho messo su carta i pensieri sulla responsabilità nell’innovazione, da cui nel 1994 nacque la Fondazione Giannino Bassetti; o quando, anni dopo, richiesto dall’amico Umberto Colombo di concepire un breve saggio per l’editore Scheiwiller, intitolato Nuova scienza e nuova politica, mi sono avvicinato al concetto ispiratore di questo pamphlet, che parte da Alice e dal suo balzo oltre lo specchio. Il divenire della problematizzazione, allora, era il mio: oggi è quello del mondo. Bella differenza! C’è di mezzo, secondo me, una realtà che mette in crisi, per effetto di innovazioni radicali, addirittura il rapporto tra sapienza e potenza, per consegnarci un’epoca di affannosa ricerca. Orfani di valori, bulimici nei mezzi, atrofici nei fini. Prima di attraversare lo specchio, in realtà viene voglia di romperlo. Sì, perché per uscirne è chiaro che non basta stare fermi, locked down, ma bisogna avere un fucile: e questo è solo il vaccino. È evidente, cioè, che ci vuole non tanto una riorganizzazione del pianeta, quanto una fratellanza di governi oltre gli Stati nazionali. E che essa postula un potere ulteriore, frutto del nuovo assetto stabilito col sapere dalle innovazioni delle quali siamo protagonisti, senza esserne, però, padroni. Abbiamo attraversato lo specchio di Alice, dotandoci di una potenza, l’innovazione, che non conosciamo fino in fondo. Allora l’equilibrio precedente, il vecchio assetto, si è rotto; a questo punto si pone il problema: come fai a fare ciò che non sai? È vero che in fondo le cose più interessanti, oggi, le facciamo nel reame del «non sapere»? Quando si è voluta sostituire, in politica, la sola ragione alla religione, abbiamo campato quattro secoli di presunta onnipotenza, non senza nuove e più devastanti guerre. Ora il pozzo è vuoto, la pandemia ha suonato la campana, ci siamo accorti che senza ideologia (cioè senza idee!) e senza potere istituito non si forgiano volontà politiche adeguate alle sfide storiche: che non sono solo finanziarie, ma anche ecologiche. Però, memori dei drammi novecenteschi, non vogliamo re-ideologizzare la politica e intanto ci spaventiamo per aver espresso, innovando, potenze nuove per quantità e qualità, forse inconoscibili negli esiti. Siamo già oltre lo specchio e non abbiamo con noi una qualsiasi mappa. La ragione, quella scientifica e sperimentale, non basta più. Ecco perché alcune altre tessere del mio puzzle riguardavano la natura delle istituzioni: la crisi delle regioni e quella dei parlamenti, i populismi e i sovranismi, il riaffacciarsi, nel mezzo del tifone, di un’idea d’Europa e l’ombra dei temi di Greta. C’è voluto tempo perché almeno alcuni pezzi si incastrassero.

La voglia di intuire il disegno peraltro sta crescendo e, in fondo, anche la consapevolezza che queste cose non si possono pensare o attivare da soli. Non si tratta tanto di soddisfare la corrispondenza d’idee con amici, interlocutori o giornalisti che saltuariamente provocano con le loro domande e si ritengono provocati da risposte innovative: ci sono i fatti, il covid-19 per primo. Sì, perché la pandemia ha realmente cambiato, se non tutto, moltissimo. La vecchia strumentazione di gestione del potere, le sue usurate redini, non tengono più. Ma a chi vada attribuita la funzione di sostituirle è un interrogativo al quale non ci si può sottrarre, specie se si vuole essere classe dirigente. Prima, per un periodo di qualche migliaio di anni, questa funzione è stata appannaggio delle grandi dimensioni imperiali, l’impero cinese e quello romano innestato dal cristianesimo; e poi dei popoli rinserrati nelle nazioni. Dal tempo di Vestfalia: Cuius regio eius religio. Solo che l’idea che un pezzo di terra possa contenere, separandoli e mettendoli fatalmente gli uni contro gli altri, i soggetti della storia, ha risolto male il problema per secoli; gli ultimi, pieni di guerre.

Oggi finalmente avanza la consapevolezza che il destino del pianeta ci accomuna, non accetta vincoli nazionali e logiche di frontiera. Il balzo inatteso di questi mesi sembra averci fatto riguadagnare almeno una dimensione europea, la cui storia è pure lastricata di colonialismi e guerre. La coesistenza degli europei si accinge dunque a diventare il destino di un popolo, quello abortito dopo i secoli di Erasmo e Spinoza. Ma siamo sicuri che non sia meramente la somma di ventisette popoli nazionali? Se sarà, non sarà un discorso solo morfologico — su quale porzione di suolo abitare dopo averne ridisegnato i confini —, ma uno che io definirei attinente all’essenza, fondato non su leggende ancestrali di tori e fanciulle, bensì su qualcosa di nuovo, ispirato allo spirito delle comunità immaginate di Benedict Anderson, differente tanto dagli Usa quanto dalla Cina; qualcosa di organizzato ben oltre la messa in comune dei debiti e di un parlamento; ma capace di raccogliere politicamente la somma di un’emozione comune, che da secoli fa dell’Europa un soggetto non solo culturale ma anche, latu senso, politico, sebbene non del tutto istituzionalizzato. Un’emozione espressa (perché no?) anche attraverso il web e i social, misurata (perché no?) dai big data; da cercarsi, più che sull’atlante o sul touch screen, in un comune sistema di valori che chiamo «civilizzazione». Concetto al quale abbiamo lavorato molto anche noi, in Globus et Locus e nel Journal Glocalism, con la Schola Italica e l’associazione Svegliamoci Italici. Perché le svolte storiche non postulano solo nuove scoperte politico culturali, ma anche nuove invenzioni istituzionali. Qual è infatti la sfida europea, se non quella che assegna alla comunità di valori che già oggi è l’Europa un ruolo storico di soggetto politico? Un soggetto costruito in un momento di svolta epocale, e sede tra l’altro di massicce migrazioni. La costruzione di un soggetto storico, di un popolo nel mondo glocal. D’altra parte, per esperienza di vita, non esclusivamente politica, mi sono trovato costretto a dialogare non solo con chi fa impresa e si impegna in politica, ma anche con studiosi e filosofi.

Certo, sono in tanti gli studiosi e i filosofi in cerca di un pensiero per orientare l’Europa nell’epoca dello spazio e tempo zero, del dominio del movimento e dell’eraclitèo panta rei, di una nuova organizzazione politica globale. Una bella sfida! Tentiamola.

di Piero Bassetti