LABORATORIO - DOPO LA PANDEMIA
Dalla malattia alla riscoperta dell’altro

Il dovere di provarci

 Il dovere di provarci  QUO-025
01 febbraio 2021

Ultimamente delle ricerche scientifiche stanno portando alla luce nuove sintomatologie post covid-19; pare che circa il sessanta per cento di coloro che ne sono stati colpiti ora sentano debolezza e sofferenza psicologica. Si potrebbe dire, per sdrammatizzare, che il covid non fa differenze, ma fa la differenza una volta che lo hai preso. E possiamo testimoniarlo in tanti. In certi casi non si riesce bene a capire dove si nasconde e cosa fa al nostro corpo, certo è che se ne esce cambiati. Tra chi si è ammalato e chi no i fattori comuni sono stati sicuramente la paura, l’isolamento e la solitudine. Più di qualcuno è riuscito e riesce a raccontarsi, altri no. Chi lo fa usa la metafora seducente dei social-media che ci dà l’illusione di essere ascoltato e compreso nei like solidali che ottiene il proprio profilo. Chi tace probabilmente vive le ferite di questo tempo con dolore inesprimibile e vede sfuggirsi dalle mani la felicità. In questo isolamento forzato, che è anche troppo spesso “solitudine” esistenziale, tutti facciamo i conti con noi stessi, con le cose e le persone che prima erano parte della nostra vita ed oggi non più. Probabilmente dalla lontana guerra mondiale non vedevamo tanta complessità e tristezza. È un dato di fatto che oggi, ora, anche le persone più forti, quelle che sempre hanno respirato a pieni polmoni la vita, si sentono abbattute, e toccano con mano tutta la loro fragilità. In questa lunga solitudine, giorno per giorno si scopre che la maggiore sventura non è la mascherina — che toglie un po’ più il fiato a chi si è già ammalato — o lo smartworking, la scuola a distanza o il dover ritirare la mano per non “sfiorare” quella dell’altro, bensì la deficienza di relazioni umane. Se fino ad un anno fa potevamo vantarci di non essere stati assorbiti dalle nuove logiche relazionali ed avevamo degli amici, oggi tutto è piombato nel mondo del web, nella virtualità; tutto passa attraverso lo schermo e la tastiera di un pc: basta un click e la nostra vita si disconnette. E paradossalmente questo tempo sembra svilire tutto il nostro essere senzienti, per cui chi ci sta accanto capita che diventi ingombrante. Molte relazioni si “sfilacciano”, diventano instabili, e dalla necessità della “presenza” dell’altro si passa al desiderio dell’assenza, preferendo la compagnia della tv o degli animali se ne abbiamo. Probabilmente non avevamo mai sperimentato, fino ad ora, e mai così forte, una vera responsabilità relazionale e di confronto con l’altro; peggio ancora quello con noi stessi. Nella libertà di cui godevamo prima della pandemia potevamo essere, secondo lo stile pirandelliano, “uno, nessuno e centomila”, cambiare identità, presente e passato. Oggi siamo costretti ad essere solamente noi stessi per svelarci agli altri nella nostra nudità umana, forse un po’ brutti, ma noi stessi. In tali circostanze possiamo fare due tipi di scelte: accogliere la realtà che Dio ci mette davanti e lottare contro l’egoismo, per dire come san Paolo: «Noi che siamo i forti abbiamo il dovere di sopportare l’infermità dei deboli, senza compiacere noi stessi» (Rom 15, 1); oppure cadere nella «tentazione che ci circonda di disinteressarci degli altri, specialmente dei più deboli» perché nonostante il progresso politico-economico «siamo analfabeti nell’accompagnare, curare e sostenere i più fragili e deboli» (Fratelli tutti, 64).  Non servono i telegiornali per sapere che ancora la vita si arresta dietro ad un respiratore ed in alcuni luoghi si ripete il rito del funerale senza i parenti. È vero, siamo tutti deboli, è una verità grande come una montagna, ma deboli lo sono ancora di più gli anziani e i bambini, che hanno bisogno di essere accompagnati, non solo con le parole, ma con i gesti, perché è nei loro occhi che leggiamo lo smarrimento e domande alle quali non sanno dare risposta. Sono domande di senso che agli anziani non servono perché hanno già speso tutta la loro vita e qualche volta se le saranno pure fatte; e non sono domande adatte ai bambini poiché è troppo presto e c’è un tempo per tutto. Ora è sicuramente il tempo, come dice Papa Francesco, di far «risuonare l’appello a ripensare i nostri stili di vita, le nostre relazioni, l’organizzazione delle nostre società e soprattutto il senso della nostra esistenza» Fratelli tutti, 33). Nulla può essere uguale a prima e, chissà che non stiamo cominciando a capire che non siamo padroni assoluti della nostra vita e di ciò che ci circonda (cfr. Fratelli tutti, 34). Non è semplice certo, ma abbiamo, moralmente e cristianamente, almeno il dovere di provarci.

di Caterina Ciriello