PUNTI DI RESISTENZA
La testimonianza di Primo Levi

Una voce indifesa e decisa

Thomas Trabacchi
30 gennaio 2021

È composta da diverse linee narrative, la preziosa docu-fiction Questo è un uomo, in onda il 30 gennaio alle 22.45 su Rai1. L’ha diretta Marco Turco, amalgamando sapientemente frammenti di finzione con interviste e materiali di repertorio. In molti di questi Primo Levi ricorda la sua esperienza di deportato ad Auschwitz e le profonde conseguenze di quella prigionia nella sua vita. Le parole dello scrittore sono attraversate, a volte, da immagini di un bianco e nero drammatico, immersivo nel passato atroce del campo, mentre attorno alla sua voce si posano le riflessioni di chi l’ha conosciuto o ha studiato a fondo la sua storia e la sua opera. Parlano, nel film prodotto da Red Film in collaborazione con Rai Fiction, David Meghnagi, Marco Belpoliti, Moni Ovadia, Anna Foa, Edith Bruck, Noemi di Segni e Giovanni Tesio, che approfondiscono il pensiero, i testi e il mondo interiore di Primo Levi.

Le loro voci alimentano una ricostruzione biografica che parte dall’arresto, il 13 dicembre del 1943, e dalla deportazione di Levi ad Auschwitz, il 22 febbraio del 1944 (ne parla la storica Anna Foa) per arrivare agli ultimi anni della sua vita, utilizzando anche spezzoni di fiction che immaginano lo scrittore non più giovane — interpretato da Thomas Trabacchi — durante un’escursione tra le amate Alpi piemontesi. Siamo nel 1986 e cercando di raggiungere la vetta, Levi si procura una distorsione alla caviglia. Gridando aiuto viene soccorso da un personaggio enigmatico e misterioso: un uomo con accento tedesco saltato fuori dal nulla, che conduce il ferito nel suo alloggio tra i boschi per curarlo e farlo riposare. Inizia però anche a fargli domande, dando l’impressione di non sapere nulla di lui e nemmeno del numero che ha tatuato sul braccio. Questo vuoto di coscienza, reale o apparente che sia, diventa l’espediente narrativo che riaccende nel sopravvissuto al lager la necessità di testimoniare ancora una volta la tragedia della Shoah. È la stessa urgenza che assalì Levi una volta tornato a Torino dopo la guerra; la stessa che lo portò a scrivere per combattere ogni possibilità di dimenticare, di perdere la memoria anche solo per il desiderio di ripartire, di riprendere il cammino lasciandosi l’orrore alle spalle. La sua battaglia fu incessante e dura già a partire dalla pubblicazione di Se questo è un uomo, inizialmente rifiutato dalla casa editrice Einaudi. «Ogni no per lui era un grande dolore», ricorda Edith Bruck, scrittrice, amica di Levi e testimone lei stessa (come ha raccontato a Francesca Romana de’ Angelis nella splendida intervista uscita su «L’Osservatore Romano» qualche giorno fa). «Per noi la memoria vuol dire vita» aggiunge Bruck, toccando il cuore della scrittura per Primo Levi. Testimoniare: questo era per lui lo scopo, anche col racconto stesso della condizione del sopravvissuto e del testimone, tra senso di colpa e un passato che non smette mai di essere presente. Ricordare, raccontare, comunicare l’atrocità per evitare che su questa cada l’oblio, per proteggere la memoria da ogni forma di negazionismo, quel negazionismo che «negli anni Ottanta ha colpito quasi a morte Primo Levi», ricorda ancora Bruck. «Il negazionista è un prototipo di antisemita» aggiunge Moni Ovadia. «Perché lui vuole negare e convincere della finzione? Perché così si può ricominciare da capo». Contro questo pericolo, racconta Questo è un uomo, Levi ha lottato dando alle sue ferite e ai suoi conflitti, al suo dolore e alle sue lucide e profonde riflessioni il compito, la missione di contribuire a evitare che l’accaduto possa avvenire di nuovo. «La fatica mentale, lo sforzo che ha messo in atto durante la sua esistenza nel campo — spiega lo psicanalista Meghnagi — che gli ha permesso anche di poter raccontare, ha avuto un prezzo altissimo da un punto di vista psicologico». Raggelante, indifesa e decisa, la voce reale di Primo Levi subentra alle parole degli intervistati o ai dialoghi della finzione, a partire dal ricordo del piccolo vagone colmo di 45 persone con lo spazio appena sufficiente per sedersi, non per stare sdraiati. Con una giovane madre che allattava un bambino. «Avevano detto di portarci i viveri — racconta Levi — ma stupidamente non abbiamo portato acqua e abbiamo sofferto, nonostante fosse inverno, una sete terrificante. Ricordo che gelava il fiato sui bulloni del vagone e noi facevamo a gara a raschiare la brina gelata per avere qualche goccia d'acqua da bagnarci la bocca». È l'inizio di un denso e lancinante racconto di un uomo, come dice il titolo del film, descritto nel pubblico e nel privato; un racconto che sa toccare in profondità e perciò lavora efficacemente, oggi, sulla costruzione della memoria. Questo è un uomo restituisce il valore, l’importanza e la ricchezza di una persona e di un intellettuale che lascia — dice Giovanni Tesio, docente e critico letterario — «un’eredità indissolubile della nostra esigenza di vita civile. L’opera di Primo Levi resiste, resta, è classica – aggiunge - e la sua parola ci mette nella condizione di riflettere sui nostri stessi tempi».

di Edoardo Zaccagnini