«L’attore nella casa di cristallo»

Quella lotta tra palco
e platea

Particolare dalla copertina del libro (che riprende una scena dello spettacolo)
25 gennaio 2021

Il teatro e l’epidemia


Nel volume di Marco Baliani e Velia Papa L’attore nella casa di cristallo. Teatro ai tempi della Grande Epidemia (Corazzano di San Miniato, Titivillus, 2020, pagine 104, euro 18) si definisce lo spettacolo teatrale dal vivo una feroce lotta «tra palco e platea. Una specie di combattimento che non conosce vittoria o sconfitta, un amplesso in cui sopraffare e cedere hanno la stessa importanza».

Appena prima del lock-down della primavera scorsa ho avuto la fortuna di assistere a eventi straordinari, un combattimento corpo a corpo con la grande letteratura per il teatro resa viva da due strepitosi interpreti, grandi “maestri” della nostra tradizione, capaci di raggrumare con la loro presenza magnetica eccellenti giovani attori. Parlo dell’Enrico iv di Luigi Pirandello con Roberto Herlitzka (83 anni), regia di Antonio Calenda, visto al teatro Basilica di Roma a metà febbraio e proprio nell’ultimo giorno prima della chiusura, il 4 marzo, Il costruttore Solness di Henrik Ibsen con Umberto Orsini (87 anni), all’Eliseo, storico palcoscenico romano che rischia di non riaprire per beghe economiche. Il testo ibseniano, in quella particolare atmosfera sospesa, ha ribadito quanto effimera sia la pretesa dell’uomo di costruire qualcosa di duraturo eludendo l’appartenenza a una comunità, non volendo fare i conti con i propri limiti (la potente metafora delle vertigini, rispetto alla volontà di potenza di puntare «più in alto»).

Nell’Enrico iv Herlitzka è quasi immobile, recita seduto o sorretto da giovani compagni, i servi dell’imperatore di Sassonia nella doppia finzione pirandelliana; eppure la sua voce, i suoi minimi movimenti incantano, impongono l’autorevolezza della persona condannata all’isolamento da una società iniqua che in lui ha punito la bellezza della creatività. Magia stupefacente dell’arte che attraversa e illumina gli acciacchi dell’età. Con Baliani, attore e drammaturgo per certi versi agli antipodi del teatro classico di Orsini, Calenda e Herltzka, potrei definire questi eventi teatrali la quinta essenza dello spettacolo dal vivo.

Il presupposto della sua rappresentazione L’attore nella casa di cristallo, realizzato nel piazzale davanti al Teatro delle Muse di Ancona nel giugno del 2020, è la punizione al silenzio che, con la chiusura dei teatri, è stata imposta agli attori. Baliani — riconosciuto iniziatore del teatro di narrazione grazie allo spettacolo Kohlhaas in cui ha raccontato la novella di Kleist solo con la voce e il corpo rigorosamente seduto su una sedia — indica un passaggio epocale tra quella stagione e questa attuale dove il narratore ha perso autorevolezza e il suo discorso risulta frammentario, si perde in labirintiche digressioni. Imbavagliati nelle mura accade di gridare il silenzio.

La performance viene raccontata nel libro omonimo, con la scelta di far parlare delle suggestioni piuttosto che riportare per intero i testi, valorizzando la diversità espressiva tra la scrittura memoriale, evocativa, lenta e l’impatto teatrale fatto di sguardi, corpi, luci, atmosfere. Gli ingredienti del combattimento. Scrivono gli autori, nella quarta di copertina, dopo aver rinunciato anche all’indice classico per lasciare libero il lettore di vagabondare a piacimento nel volume: «È importante far conoscere con questo libro come un teatro, quello delle Marche, il giorno della riapertura degli spazi teatrali, invece di inventarsi escamotage pubblicitari (…) sia riuscito a ricreare una drammaturgia nuova».

All’interno del dibattito sulla chiusura delle sale è utile ascoltare le voci che si alzano dagli attori, dal regista, dagli operatori, perfino dal pubblico che ha assistito al rito teatrale, davanti a performer rinchiusi in gabbie di cristallo intenti a espellere dal corpo il disagio della reclusione, ma finendo per testimoniare una condizione comune durante il lock-down: «La disperata ricerca di qualcuno».

Gli spettatori, tenuti a debita distanza dalle norme sanitarie, incentivando la simbolicità dell’operazione, hanno potuto ascoltare i soliloqui attraverso auricolari oppure concentrare lo sguardo su quei corpi in movimento che «raccontano il loro desiderio di essere attori in una condizione in cui è impossibile esserlo, il bisogno di esserlo, provare a cantare, il bisogno di uscire, la paura di soffocare (…). Tutto delimitato dalla gabbia di plexiglas in cui si trovano. E quello che colpisce è che non è una trovata narrativa, ma la realtà. (…) È un’autentica reazione all’attuale impossibilità di fare teatro come prima, ma anche un modo di resistere e comunque provare e tornare a farlo lo stesso, sperando che il plexiglas diventi presto inutile».

di Fabio Pierangeli