Per una teologia mediterranea

Particolare della copertina del libro
11 gennaio 2021

«La teologia dopo Veritatis gaudium nel contesto del Mediterraneo» è il titolo del convegno organizzato a Napoli nel giugno 2019 dalla Sezione San Luigi della Pontificia facoltà teologica dell’Italia meridionale. Al convegno intervenne anche Papa Francesco che nell’occasione sollecitò l’elaborazione di una teologia “mediterranea” fondata sul dialogo e l’accoglienza. In questa prospettiva si colloca il volume Dialogo, discernimento e teologia. Percorsi nel contesto del mediterraneo, curato da Carlo Manunza ed edito da Il Pozzo di Giacobbe (pagine 248, euro 22), dal quale pubblichiamo due stralci della prefazione a firma del gesuita Jean-Pierre Sonnet, docente presso la Pontificia Università Gregoriana.


Ritornare all’olivo


Nel suo discorso a Napoli del 21 giugno 2019, Papa Francesco ha incoraggiato l’elaborazione di una teologia mediterranea. Questa teologia, ha precisato, metterà in gioco “nuove narrazioni”: «Vi è bisogno di narrazioni rinnovate e condivise che, a partire dall’ascolto delle radici e del presente, parlino al cuore delle persone, narrazioni in cui sia possibile riconoscersi in maniera costruttiva, pacifica e generatrice di speranza». La narrazione di cui queste pagine abbozzeranno uno schema prenderà le mosse da una “composizione del luogo”: dal posto in cui ha parlato, Papa Francesco intravedeva, attraverso i fitti rami di grandi alberi, il golfo di Napoli. Alla sua destra c’era una fila di lecci monumentali, la quercia dal fogliame sempreverde, tipica del bacino del Mediterraneo. Allo stesso modo, le pagine che seguono considereranno il Mediterraneo a partire dai suoi alberi e, in particolare, da uno di questi, quell’olivo che ha un ruolo caratteristico nel paesaggio, nella vita sociale e nel patrimonio religioso del mondo mediterraneo. Si tratterà di arrendersi a un’evidenza: gli alberi rendono migliori le culture e le religioni. Conferiscono loro un surplus di dolcezza. E l’olivo, che viene coltivato su tutte le coste e nell’entroterra di questo bacino, lo fa in modo singolare. Se esso è, come scrisse l’agronomo romano del i secolo Columella, «il primo di tutti gli alberi», è anche il primo nel suo modo di addolcire l’esperienza umana e religiosa.

Non si tratterà qui di fornire sull’olivo dati enciclopedici, botanici o altro; si tratterà di sforzarsi di pensare a partire dall’albero, imparando «il suo modo di essere nel mondo e di comporre con lo spazio e il tempo». A differenza di Platone, che nel Fedro affermava di non avere nulla da imparare dagli alberi, queste pagine andranno alla scuola di un albero, come con un saggio. La domanda che il poeta Francis Ponge rivolgeva ai pini: «Sorgete, alberi di pino, sorgete nella parola. Non vi si conosce, date la vostra formula», sarà indirizzata qui all’olivo. Anch’esso ha una formula, un modo, un carattere che è importante scrutare, chiamare alla parola: ci aiuterà a comporre noi stessi con lo spazio e il tempo, nella società e davanti a Dio.

La Bibbia, lo sappiamo, mette in guardia contro le pratiche idolatriche associate a grandi alberi, a volte offerti come simboli di orgoglio umano e, in generale, demistifica la natura. Tuttavia, accoglie il mondo naturale in quella che si potrebbe definire una fraternità del creato. Moltiplicando le metafore, essa fa posto alla flora nell’esperienza umana e divina: «Olivo verde, straordinario per la bellezza del suo frutto, questo è il nome che il Signore ti ha dato» (Ger 11, 16); «Sarò come la rugiada per Israele [...], esso avrà la magnificenza dell’olivo» (Os 14, 6-7). Nella tradizione cristiana, questa fraternità ha trovato il suo manifesto nel Cantico delle creature di Francesco d’Assisi: «messor lo frate sole», «sora luna e le stelle», «frate vento», «sor’aqua», «sora nostra matre terra» e i suoi «coloriti flori». Nelle strofe del Poverello, come in quelle dei profeti biblici, la simpatia cosmica diventa il mantello di un linguaggio profondo, che unisce l’oggetto e il soggetto della lode. «Manifestare il sacro sul cosmo e manifestarlo nella psiche è la stessa cosa», scrive Paul Ricœur. «Cosmo e Psiche sono i due poli della stessa espressività, io mi esprimo esprimendo il mondo, esploro la mia sacralità decifrando quella del mondo». L’indagine che segue avrà questa doppia traccia; l’attenzione all’albero significherà, ad ogni passo, attenzione all’uomo che vive in simbiosi con esso — una simbiosi che è essa stessa visitata da Dio.

L’invito di Papa Francesco si pone all’inizio di questa ricerca. Egli l’ha provvisto di una forma di precedente: l’esortazione apostolica Querida Amazonia, che ha fornito all’immensa Amazzonia prospettive etiche e teologiche responsabili e stimolanti. C’è da ripetere, riguardo al bacino del Mediterraneo ciò che Papa Francesco ha formulato riguardo al bacino amazzonico. In un caso come nell’altro, il primo atteggiamento è quello della contemplazione: «Imparando dai popoli originari, possiamo contemplare l’Amazzonia e non solo analizzarla, per riconoscere il mistero prezioso che ci supera. Possiamo amarla e non solo utilizzarla, così che l’amore risvegli un interesse profondo e sincero. Di più, possiamo sentirci intimamente uniti ad essa e non solo difenderla, e allora l’Amazzonia diventerà nostra come una madre» (55). Queste pagine attiveranno un’empatia simile: per accogliere l’olivo, che vibra alla luce del Mediterraneo, e per accoglierlo in tutte le sue dimensioni, occorre innanzitutto mettersi in sintonia con la sua vibrazione essenziale.

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Scoprire un ulivo è, il più delle volte, scoprire un uliveto. Da sei millenni l’albero fa parte del giardino umano; è stato coltivato in frutteti sparsi intorno ai centri abitati. «L’ulivo — scrive Christophe Boureux — è l’albero civilizzatore per eccellenza in tutto il bacino del Mediterraneo». La sua coltivazione ha contribuito al modellamento dei rilievi: sulle coste e nell’entroterra cresce in paesaggi terrazzati o ad anfiteatro. Benché l’ulivo possa essere coltivato in collina o in pianura, si trova particolarmente a suo agio sui terrazzamenti trattenuti da muretti a secco. Queste mura svolgono un ruolo essenziale: prevengono gli smottamenti, combattono l’erosione, contribuiscono al drenaggio e impediscono la desertificazione del territorio. In realtà creano un microclima favorevole alla lenta crescita dell’albero.

Sarebbe necessario recarsi sulle colline di Battir, un villaggio palestinese a sudovest di Gerusalemme, per misurare il miracolo dell’architettura agricola in questione. Si scoprirà un paesaggio straordinario, nato da millenni di interazione, alternando terrazzamenti irrigati per l’orticoltura e terrazzamenti a secco coltivati a vite e olivo. La meraviglia di Battir (le colline sono patrimonio dell’umanità dell’Unesco dal 2014) si trova infatti, a varie scale, in tutto il Mediterraneo.

I muretti a secco sono l’eredità di generazioni, instancabili di sacrificio ai piedi degli ulivi. Hanno il loro poeta in Giovanni Boine; nel suo saggio La crisi degli olivi in Liguria (1911), ha scritto: «Terrazze e muraglie fin su dove non cominci il bosco, milioni di metri quadri di muro a secco che chissà da quando, chissà per quanto i nostri padri, pietra per pietra, hanno con le loro mani costruito. Pietra su pietra, con le loro mani, le mani dei nostri padri per secoli e secoli, fin su alla montagna! Non ci han lasciati palazzi i nostri padri, non han pensato alle chiese, non ci han lasciata la gloria delle architetture composte: hanno tenacemente, hanno faticosamente, hanno religiosamente costruito dei muri, dei muri a secco come templi ciclopici, dei muri ferrigni a migliaia, dal mare fin in su alla montagna! Muri e terrazze e sulle terrazze gli olivi contorti a testimoniar che han vissuto, che hanno voluto, che erano opulenti di volontà e di forza...».

Oltre ai muri materiali, è l’arte di costruirli che è entrata a far parte del patrimonio dell’umanità (dal 2018 è stata inclusa nella lista del patrimonio culturale immateriale).

Questo riconoscimento consacra la rinascita dell’abilità in questione: uomini e donne si rimettono a fare quello che facevano i loro bisnonni. Ovunque venga restaurato un muretto, o fatto nuovo, si riceve una lezione di saggezza. Il ritorno all’arte della pietra a secco è indicativo del desiderio di molti di ritrovare il posto che loro spetta nella creazione — accanto all’albero.


L’albero di Pasqua


La longevità degli ulivi s’accompagna a una straordinaria capacità di resistenza. I paesi del Mediterraneo possiedono tutti degli olivi monumentali, associati a storie: colpito da un incendio, da un fulmine o dal gelo, il tronco distrutto, ridotto al suo ceppo, questo albero ha fatto nascere dei germogli, si è ricostruito una vita. Un passo del Libro di Giobbe  evoca la capacità di alcuni alberi di riprendere vita in condizioni estreme (Gb  14, 7-9). Il ritratto potrebbe essere quello dell’ulivo: «È vero, per l’albero c’è speranza: se viene tagliato, ancora si rinnova, e i suoi germogli non cessano di crescere; se sotto terra invecchia la sua radice e al suolo muore il suo tronco, al sentire l’acqua rifiorisce e mette rami come giovane pianta».

Dell’albero di Giobbe e di tanti sopravvissuti tra gli ulivi, possiamo dire che sono cugini degli alberi miracolati di Hiroshima. La città ha circa 170 alberi — ginkgo, eucalipto, pino, canfora e altri — che, irradiati, spezzati alla radice, schiacciati dall’esplosione, sono tornati in vita e continuano a crescere. Questi alberi non sono solo il simbolo di una continuità oltre la rottura, essi sono questa continuità. In modo simile, molti ulivi sono come dei reduci, sopravvissuti a disastri di ogni tipo. È una sorpresa se, al terzo tentativo, la colomba liberata da Noè ritorna da lui con «un ramo d’ulivo fresco in bocca» (Gen  8, 11)? Un albero era tornato in vita nella creazione devastata, ed è l’altro eroe di questa storia, una promessa per tutti i viventi.

Non sorprende, quindi, che gli alberi, soprattutto gli ulivi, accompagnino quella che, nella fede cristiana, rappresenta la più radicale ripresa di vita. La passione di Gesù si apre in un giardino, chiamato “degli ulivi”. Gesù è sepolto in un luogo piantato con alberi — «Nel luogo dove Gesù fu crocifisso c’era un giardino, e in quel giardino un nuovo sepolcro dove nessuno era mai stato deposto» (Gv  19, 41); è in questo giardino che egli risorge, scambiato per il giardiniere (Gv  20, 15). La ripresa della vita ha il suo segreto solo in Dio, ma si riflette nella storia di certi alberi, segnata da rinascite insperate. In questo senso, gli ulivi del Giardino del Getsemani svolgono il ruolo di un quinto vangelo. È improbabile che le notevoli piante che vi si trovano ora fossero testimoni della preghiera di Gesù (Tito, quando pose l’assedio a Gerusalemme nel 70 d.C., si prese cura di abbattere tutti gli alberi nelle vicinanze); ma potrebbero essere i discendenti di questi alberi testimoni, i ceppi e le radici degli olivi riservano sempre delle sorprese. Nei loro tronchi tormentati questi alberi rendono presente qualcosa della lotta di Gesù nella sua preghiera; nelle loro foglie e nei loro frutti ne raccontano anche la fecondità.

Ogni albero, in effetti, ha qualcosa di cristico, non solo per la forma che disegnano il suo tronco e i rami, ma anche per la non violenza del suo ethos: l’albero non restituisce nessuno dei colpi che gli vengono inferti. Esso è, secondo le parole dei saggi indù, «un organismo così generoso da offrire la sua ombra a chi viene per tagliarlo». Gesù ha la dolcezza di un tale albero: «Nel fogliame dei suoi fianchi respira un libro aperto: è un albero dalla scorza di pelle. Incassa ogni colpo, non ne ricambia nessuno. Sola, la linfa si spande, un in- folio in sottofondo, di nuovo testamento».

Il “miracolo dell’olio” si prolunga nell’essere di Cristo. «Lo Spirito del Signore è su di me perché mi ha consacrato con l’unzione», annuncia Gesù nella sinagoga di Nazareth, citando Isaia (Is  61, 1; Lc  4, 18). Continua con il profeta: «per fasciare i cuori spezzati»; nel testo profetico, la guarigione avviene mediante l’applicazione di un «unguento di gioia» (v. 3). L’olio unifica così l’essere e la missione dell’unto di Dio, facendone una missione di compassione. Cirillo di Gerusalemme (313/315 - 387) considerava il battesimo come partecipazione «ai frutti dell’olivo fecondo che è Gesù Cristo (τ˜ης καλλιελαίου Ιησο˜υ Χριστο˜υ)», a causa dell’unzione del battezzato «dalla testa ai piedi». Gesù, il nostro “bell’ulivo”: la teologia non potrebbe essere più mediterranea di così. Tra l’albero dei giardini della passione, della morte e della risurrezione, l’albero delle colline di Giuda, l’albero ai confini del Marocco e della Spagna, e la persona di Cristo, l’innesto ha preso — e come non potrebbe? — grazie alle parole del Vescovo di Gerusalemme. Un albero racconta, attraverso i secoli, il mistero di Cristo con il tronco lavorato nel dolore e sempre giovane nei suoi rami, il miracolo della vita che riemerge contro ogni speranza, il miracolo dell’unzione assorbita ed espressa nella compassione.

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Un albero unisce i paesi del Mediterraneo. Li unifica come un’unica terra, dando loro una cultura comune oltre le divisioni dei confini e dei conflitti. Gli ulivi sono in pace, mentre le nazioni che li circondano sono divise: «Polline, tutto è polline in Israele nelle giornate di aprile; polline, tutto è polline, in quei giorni in Palestina. È uno sciame sulle colline, un esodo di stame in gineceo. Il muro, il filo spinato, la cupola di ferro non ci possono fare nulla: qui e là, gli ulivi vengono fecondati».

L’ulivo unisce anche le tre religioni abramitiche. Dio aspetta «là dove sono le radici», scrive il poeta Rainer Maria Rilke. Queste radici sono chiaramente quelle dell’olivo. Ognuno dei tre monoteismi  incrocia più volte l’“albero dell’olio” nella propria tradizione. Insieme possono coltivare l’olivo nella loro memoria, nella loro immaginazione e nei loro propositi, concentrandosi sulle lunghe temporalità, al di là delle rotture, proteggendo l’ambiente creato dai padri, muro dopo muro, prolungando lo spirito della spigolatura e la destinazione universale dei frutti della terra, scegliendo di non colpire di vendetta, salvaguardando, nel cuore del tempo e della notte, lo spirito della veglia. Tutti modi per prolungare il “miracolo dell’olio”, per scoprire le risorse inaspettate che Dio ci offre, trasmesse dall’albero che fa segno sulle colline. Occorre, ancora una volta, sedersi al suo fianco; esso dice, scrive Lea Goldberg nella sua poesia Ulivi , «cose sagge e semplici»: «Hanno resistito all’ondata di calore ed erano confidenti nella tempesta. come se si fossero appostati per l’eternità sul pendio di fronte al villaggio in rovina, dove si argentarono nella fredda luce della luna crescente. Ancora fermi, quanto abbondanti in questa pace. Ecco la vecchiaia matura! Ascolta, ascolta le raffiche di vento attraverso il paesaggio degli ulivi. Che alberi modesti! Riesci a sentire ora? Stanno parlando ora Cose sagge e semplici».

Quali sono le “cose (debarîm ) sagge e semplici” che sussurrano gli alberi? È possibile riconoscervi le “cose” o le “parole” (in ebraico, è sempre debarîm ) che dice a proposito degli alberi il libro chiamato Debarîm , il Deuteronomio . Nelle leggi di guerra, Mosè stabilisce che nel caso di un assedio prolungato, gli alberi da frutto saranno risparmiati: «Quando tu porrai un lungo assedio a una città, combattendo contro di essa per prenderne il controllo, tu non brandirai l’ascia per distruggerne gli alberi, perché sarà dei loro frutti che tu ti nutrirai: tu non li abbatterai. L’albero del campo è un essere umano (‘adam ), per essere da voi assediato?» (Dt  20, 19). L’analogia finale, tra l’albero e l’‘adam , gioca all’interno di una domanda retorica: l’albero, ovviamente, non è un essere umano, più precisamente, non è per nulla un uomo di guerra. Esso è, assolutamente, un non-belligerante, non avendo alcun mezzo per difendersi. Il commentatore medievale Rashi parafrasa la domanda: «Può l’albero del campo ritirarsi, davanti a te, nella città assediata?». No, naturalmente, l’albero è per natura immobile, disarmato di fronte alla mobilità strategica dell’uomo.

Il poema va, tuttavia, oltre. Mettendo l’uno di fronte all’altro gli ulivi (risparmiati) e il villaggio in rovina, il testo di Lea Goldberg dimostra che una legge saggia può diventare assurda. Quando è in gioco un villaggio, e non più una città fortificata, i fatti cambiano: non è auspicabile, in questo caso, risparmiare gli uomini come gli alberi da frutto? Di fronte alle rovine del villaggio, gli ulivi diventano allora un memoriale: stanno lì, ritti nella loro vecchiaia, in nome degli abitanti del villaggio che non son potuti invecchiare con loro in pace. La domanda del Deuteronomio  riceve allora un’altra risposta, quella opposta: sì, gli alberi corrispondono agli esseri umani.

Questa inversione midrashica è al cuore della poesia di Natan Zach (nato nel 1930), Kî ha’adam ‘etz hasadeh , «Poiché l’‘adam  è un albero del campo». Invertendo l’ordine biblico delle parole, il poeta gioca, al contrario, con una metafora: sì, l’uomo è un albero del campo. La metafora è elaborata lungo tutto il poema, in modo alternato: «Come l’albero, l’uomo cresce. Come l’uomo, anche l’albero è sradicato [...]. Come l’albero, l’uomo aspira verso l’alto».

Nei poemi di Lea Goldberg e Natan Zach, gli ulivi sussurrano cose sagge e semplici, facendo eco alle parole bibliche. Sì, gli alberi e gli uomini sono legati, al punto da essere metafora l’uno per l’altro. E gli ulivi, nel giardino umano, ne rappresentano la prova millenaria.