Arrivi e partenze in «L’abisso non ci separa» di Nicola Maranesi

Tutto è diverso
tranne il vissuto

Particolare dalla copertina del libro
05 gennaio 2021

Sono trascorsi quasi vent’anni da quando Melania G. Mazzucco vinse il premio Strega con Vita (Rizzoli, 2003), storia d’emigrazione — e non solo — di due bambini del sud Italia verso l’America. «La differenza fra un cavallo americano e un ragazzino italiano è la seguente. Se il padrone lascia il cavallo al freddo per troppo tempo, la Society for Prevention of Cruelty to Animals può denunciarlo per maltrattamenti, appioppargli una multa fino a cinque dollari e togliergli l’animale. Se il padrone al freddo ci lascia il ragazzino, nessuno ci fa caso», scriveva l’autrice — a proposito del dramma della condizione dello straniero in mondi altri — nel suo meraviglioso romanzo, memoria di famiglia. Diamante, dodici anni quando ai primi del Novecento sbarca ad Ellis Island, è il padre di suo padre, e Vita un racconto — per quanto la storia diventi leggenda — assolutamente vero.

Vero come le quaranta narrazioni raccolte dal giornalista Nicola Maranesi e illustrate dall’artista Velasco Vitali ne L’abisso non ci separa. Storie allo specchio di arrivi e partenze (Milano, Terre di mezzo, 2020, pagine 224, euro 15). Un volume che — ispirandosi alla trasmissione Io vado via, in onda nel 2019 su Radio 3 — intreccia le voci di chi è partito e di chi è arrivato, le vite di «venti italiani cittadini del mondo e venti cittadini del mondo italiani, a due per volta», i ricordi del loro viaggio, con lo smarrimento, il disagio e i fallimenti, in direzione ignoto.

Dunque nel testo, dove niente è romanzo e niente è finzione, ci sono le testimonianze di Francesca Pennacchi — nata a Marina di Carrara nel 1929 e dieci anni dopo su una nave per raggiungere il padre in Etiopia — e della giovane albanese Elona Aliko che s’imbarca per arrivare in Italia. Ci sono, ad esempio, «gli occhi di Carola (Zanchi) e di Dominique (Boa) (che) vedono invece il medesimo orrore: la morte in mare», quando la prima, italiana, solca l’Atlantico nel 1947, mentre la seconda, dalla Costa d’Avorio, nel 2013 parte per attraversare il deserto e il Mediterraneo. Tra le varie storie emerge, ancora, «la gratitudine del friulano Antonio (De Piero) nei confronti del popolo americano, che lo accoglie nel 1920 e gli dà lavoro», la quale, a sua volta, riecheggia «nella riconoscenza della nigeriana Joy (Ehikioya) verso la città di Trento, che nel 2016 le offre una nuova casa e un nuovo inizio, dopo che è stata costretta a fuggire dalle persecuzioni subite in Africa perché nata albina».

Si tratta, in altre parole, di umanità a confronto. «Latitudini diverse, epoche diverse, contesti diversi. Identico il vissuto», poiché, secondo Maranesi, «esistono analogie impressionanti tra i racconti di emigrazione degli italiani all’estero e quelli degli immigrati nel nostro Paese», l’Italia. Del resto, nei racconti di ieri e di oggi si rilevano identici temi: razzismo, discriminazione, fame, violenza, necessità di conoscere se stessi, importanza di abbattere muri attraverso la forza della parola. Così, «le acrobazie linguistiche» di Armando Zanchi — emigrato a Londra, dove il taxi diventerà il «tacchino» e dove l’uomo difficilmente s’integrerà proprio perché senza parole — sono in rima con quelle di Clementine Pacmogda, che in Burkina Faso si laurea in linguistica, ma, nel 2008, arrivata in Italia, priva d’espressioni, si sente vuota. Le due testimonianze fanno pure pensare alle parole di Diamante, nel romanzo di Mazzucco: «La prima cosa è dare un nome alle cose. Così sai sempre dove sono. Se non lo sai, non puoi cercarle». Giusto.

Ulteriore comune denominatore delle testimonianze nel libro di Maranesi è il luogo in cui le stesse vengono custodite: l’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano. Dal 1984, l’archivio è, infatti, riuscito a raccogliere circa 9.000 testi, tra diari, memorie, epistolari e documenti preziosi di storie dal basso, di generazioni passate, altrimenti destinate a scomparire; accanto a essi, c’è il fondo speciale sulle storie migranti attuali, che ha superato i 400 racconti. Testimonianze, queste ultime, recuperate grazie al concorso nazionale Dimmi (Diari multimediali migranti), che, con un’ampia rete di partner e il relativo comitato scientifico, ha lanciato la sua sesta edizione. In particolare, persone di origine o provenienza straniera, che vivono o hanno vissuto in Italia o nella Repubblica di San Marino, possono parteciparvi, inviando all’archivio (o a una delle organizzazioni aderenti) un’opera autobiografica inedita — una narrazione di sé, nella forma di racconti scritti o audio, video, fotografie, disegni, email, cartoline, in italiano o lingua straniera — entro il 30 aprile 2021: i vincitori saranno annunciati al 37o Premio Pieve Saverio Tutino, le storie verranno pubblicate da Terre di mezzo in un unico volume entro l’anno successivo e conservate, come accennato, nel fondo speciale dell’archivio diaristico nazionale.

Grazie anche all’archivio, pertanto, Nicola Maranesi costruisce un necessario racconto collettivo. Necessario perché il monito che ognuno dovrebbe darsi, per citare di nuovo Vita, è: «Ricordati di ricordare».

di Enrica Riera