A colloquio con Delio Siticonatzi, rappresentante del popolo asháninka

Grazie a Papa Francesco l’indigeno è entrato nella storia

Monsignor Žerdín e Delio Siticonatzi
18 novembre 2020

«Il primo ricordo che mi viene in mente è quando Papa Francesco ha ricevuto i rappresentanti dei popoli indigeni in Vaticano. In quel momento, per me, l’indigeno è entrato nella storia, il Papa lo ha reso visibile, lo ha mostrato come un essere umano che pensa e che può offrire molto a partire dalla sua realtà e dalla sua cultura». Non ha dubbi Delio Siticonatzi Camaiteri, fiero esponente del popolo originario asháninka, gruppo etnico che abita l’Amazzonia peruviana.

A un anno dal Sinodo per la regione amazzonica, in cui è stato uno dei 55 tra uditori e uditrici che hanno partecipato ai lavori dal 6 al 27 ottobre, restano ben impressi nella sua memoria i gesti e le parole del Pontefice durante le tre settimane dell’assemblea speciale, in particolar modo quell’incontro riservato, nel pomeriggio del 17, tra una quarantina di indigeni e il vescovo di Roma.

Indossava il copricapo di piume d’uccello e il mantello caratteristico della sua gente anche in quell’occasione il professor Delio. Già, perché nonostante sia nato nella comunità Santa Rosita de Shirintiari, lungo le rive del fiume Tambo, al prezzo di grandi sacrifici è potuto diventare docente universitario nell’ateneo Nopoki, di cui è ex allievo. Si occupa della pratica professionale dei futuri docenti bilingue della selva centrale peruviana.

Nopoki in lingua asháninka significa «sono arrivato, sono qui», a indicare un luogo non solo fisico ma anche simbolico, un sogno, un ideale. La realtà accademica che porta questo nome è sorta nella città di Atalaya per iniziativa dell’Università cattolica Sedes sapientiae (Ucss), che a sua volta è stata fondata vent’anni fa nella capitale Lima, ma per iniziativa della diocesi di Carabayllo in collaborazione con l’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano e il movimento di Comunione e liberazione,

Grazie alla collaborazione con il vicariato apostolico di San Ramón, attualmente vi sono impegnati oltre seicento giovani provenienti da dodici villaggi, situati lungo i fiumi amazzonici.

La maggior parte di essi vengono preparati per diventare insegnanti bilingue — asháninka, ashéninka, matsigenka, nomatsigenga, shipibo-conibo, yánesha e yine — nelle loro comunità di origine; mentre altri si formano in amministrazione, contabilità o ingegneria agraria con specializzazione sulla flora della foresta. In alcuni casi occorrono diversi giorni in canoa per coprire le distanze, perciò Nopoki è diventata una sorta di seconda casa per circa trecento allievi, tra donne e uomini, che risiedono stabilmente nell’annesso ostello.

Nel tracciare un bilancio dell’esperienza vissuta a Roma, il professor Delio sottolinea che il Sinodo è «stato accolto a braccia aperte nelle comunità. Esse e l’Amazzonia hanno sempre desiderato parole di speranza dalla Chiesa. Io, come partecipante al Sinodo e come comunicatore di quelle parole nelle comunità indigene, ho visto — spiega — che i miei fratelli si rallegrano e si emozionano di fronte a buone notizie come quelle».

Infatti, assicura che da quando è tornato a insegnare «i giovani vogliono saperne di più, sono ansiosi di ascoltare ciò che è stato detto e fatto a Roma. Essi a Nopoki agiscono in modo coerente, hanno il ruolo profetico di portare nelle loro comunità il messaggio del Sinodo per i popoli amazzonici. Per questo gli studenti e le studentesse hanno bisogno di essere accompagnati per diventare animatori e sostegno delle loro comunità».

E sebbene «per adesso non sia stato ancora lanciato alcun progetto ispirato al Documento finale del Sinodo, si sta elaborando del materiale educativo per far conoscere ai giovani e alle giovani indigeni il messaggio di Papa Francesco sul rispetto della cultura e sulle questioni educative». Anzi, precisa, in realtà «il grande progetto già c’è e si chiama Nopoki, con il quale intendiamo preparare i giovani a essere promotori dello sviluppo dei loro popoli. Vogliamo che i giovani trasmettano il messaggio del Sinodo, un messaggio del buon vivere», chiarisce.

Purtroppo però anche in queste aree remote il covid-19 è una realtà con cui dover fare i conti. «Inizialmente le comunità indigene hanno aspettato aiuti statali per affrontare il diffondersi del virus: hanno atteso terapie e medicine. Ma purtroppo non c’è stata un’assistenza reale e adeguata. Perciò — conclude — hanno dovuto ricorrere a quello che avevano a disposizione: le loro medicine tradizionali e i loro costumi ancestrali».

di Gianluca Biccini