I quarant’anni del Jesuit refugee service visti dal suo direttore padre Smolich

Solidarietà e creatività

Nel 1984 il Jrs avvia un programma di sostegno ai rifugiati di El Salvador e Guatemala
13 novembre 2020

«La situazione degli sfollati forzati — non usiamo l’espressione “crisi dei rifugiati” —, che rappresentano meno dell’uno per cento della popolazione mondiale, è risolvibile se le dedichiamo il nostro cuore e la nostra mente. Ma c’è una crisi della solidarietà e una crisi di immaginazione. Politicamente, siamo in un momento di paura e ansia; se riflettiamo sulla nostra esperienza, sappiamo che le decisioni prese per paura raramente sono buone. La crisi è fondamentalmente spirituale: chi siamo come esseri umani e qual è la nostra chiamata come fratelli e sorelle insieme?»: con queste parole sulle sfide a lungo termine in relazione alla questione migratoria si esprime padre Thomas H. Smolich, direttore internazionale del Jesuit refugee service (Jrs), in un colloquio con «L’Osservatore Romano» in occasione del quarantesimo anniversario di fondazione. Era il 1980 quando padre Pedro Arrupe ebbe l’intuizione di rispondere alla tragedia dei “boat people” vietnamiti. Un anniversario che verrà celebrato ufficialmente il 14 novembre e che il Papa ricorda in una lettera indirizzata a padre Smolich. «Come ricollegare il tessuto dell’umanità? Come possiamo andare oltre l’allarmismo così comune tra i leader mondiali?» si interroga il religioso, che è anche delegato presso il preposito generale della Compagnia di Gesù per le questioni attinenti ai rifugiati. «Le strutture ci sono, le persone sono generose — prosegue — bisogna trovare modi per ricreare la nostra unità in mezzo a correnti contrarie. Se riusciamo a farlo, le altre questioni a lungo termine — finanziamento di progetti di sviluppo, opzioni di reinsediamento, istruzione come diritto e necessità per tutti — saranno risolvibili».

A breve termine, invece, in cima alla lista delle sfide principali da affrontare «vi è chiaramente il covid-19», commenta padre Smolich. «Mentre il virus ha avuto un impatto variabile dove serviamo (America Latina, Siria ed Europa sono state le più colpite), le ripercussioni economiche del coronavirus sono state devastanti per gli sfollati forzati in tutto il mondo», deplora il religioso. Inoltre, «i lockdown colpiscono gravemente i poveri, che devono continuare a lavorare per mangiare. Lo stress economico mette le famiglie in situazioni precarie: ad esempio, il matrimonio precoce è in aumento». Altra fonte di preoccupazione per il Jrs è la diminuzione del finanziamento degli interventi dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati da parte degli Stati e l’affievolimento del sostegno dei diversi governi ai rifugiati internazionali, «poiché le sfide interne causate dal covid-19 avranno voci più forti in capitolo».

All’invito a descrivere l’identità del Jrs oggi, padre Smolich risponde con queste parole: «Il più importante è che siamo un ministero della Compagnia di Gesù e che condividiamo la sua missione di fede e giustizia. Non siamo una ong sponsorizzata dai gesuiti, facciamo parte della Compagnia». In quanto gesuiti, prosegue, «siamo chiamati a leggere i segni dei tempi». «La realtà degli sfollati forzati è cambiata nel corso dei nostri quarant’anni di esistenza», spiega il religioso: «Una generazione fa, la maggior parte dei rifugiati e degli sfollati interni erano tornati a casa abbastanza rapidamente o erano stati reinsediati in tempi ragionevoli. Quello non è più il mondo del 2020. Il numero degli sfollati forzati è continuato a salire, i conflitti hanno una durata di vita senza fine e il Nord del mondo ha il più delle volte posto barriere efficaci al reinsediamento. Quando non si può né tornare a casa né andare avanti, bisogna farsi una vita dove ci si trova». «Mentre vorrei che più persone potessero tornare a casa, e che più persone potessero essere reinsediate o ricevere asilo — confida padre Smolich — siamo chiamati a camminare con le persone dove sono, così come sono». D’altronde, a parte qualche eccezione — «umanamente parlando, il Libano non può accogliere indefinitamente tutti i rifugiati siriani nei suoi confini» — il direttore internazionale del Jrs ritiene che l’integrazione dei rifugiati è possibile, «soprattutto quando il Nord del mondo prende sul serio la sua responsabilità di fornire opportunità di vivere con dignità che non comportino l’attraversamento di uno specchio d’acqua in un gommone». La necessità di integrare migranti e rifugiati, insieme a quella di «accogliere, proteggere, e promuovere», ricorda inoltre il padre gesuita, citando parole usate ripetutamente del Santo Padre, viene messa in rilievo nell’enciclica Fratelli tutti, che invita non a «calare dall’alto programmi assistenziali», ma a «fare insieme un cammino attraverso queste quattro azioni, per costruire città e Paesi che, pur conservando le rispettive identità culturali e religiose, siano aperti alle differenze e sappiano valorizzarle nel segno della fratellanza umana». Traendo ispirazione dalla parabola del Buon Samaritano, il testo pontificio richiede da noi «un impegno con i nostri fratelli e sorelle, soprattutto tra i più emarginati», insiste padre Smolich: «Camminare dall’altra parte della strada non è accettabile». L’enciclica, nota ancora il gesuita, è anche occasione per il Papa «di portare all’attenzione internazionale quello che vede come la questione critica del nostro tempo dalla sua prima visita a Lampedusa fino ad oggi: la condizione dei migranti dimenticati, come le vittime della tratta di esseri umani e gli sfollati interni, invocando un approccio integrale alla loro esigenza di accesso ai diritti, ai servizi di base e alla tutela giuridica».

di Charles de Pechpeyrou