Voci del jazz contro l’odio

Rabbia e compassione di Nina Simone

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07 novembre 2020

Il Newport Jazz Festival, nel 1960, accolse un’artista straordinaria, una voce di donna dalla profondità baritonale, originale e intensa, come il suo sound: un inedito miscuglio tra folk e jazz. Nina Simone, nata Eunice Waymon nel 1933 a Tryon, North Carolina, regalò al pubblico, accompagnandosi con il tamburello, il particolare arrangiamento della vecchia canzone popolare del Sud Li’l Liza Jane, già registrata nel 1917, per la Victor Records, dalla Jazz Band di Earl Fuller, che la consacrò come uno dei grandi standard statunitensi.

Era l’inizio degli anni Sessanta, la carriera di Nina Simone stava rapidamente decollando, ma qualcosa la divorava dall’interno e la logorava lentamente. L’oscurità della sua anima e lo spettro segnante della discriminazione razziale subita, che ne impedì l’ammissione al prestigioso Istituto di Musica Curtis di Philadelphia, vibravano in ogni nota eseguita al pianoforte, strumento che sin da bambina l’aveva protetta da un’aspra realtà di miseria e razzismo. Per i critici dell’epoca, Nina Simone donava alla sua musica la tecnica e la disciplina che solitamente vengono associate alla musica classica: la signora Mazzanovich, la prima vera insegnante della piccola e spaventata Eunice, la crebbe con Beethoven, Bach, Debussy, plasmandone la formazione.

Oltre all’enorme talento, coltivò il sogno di diventare la prima pianista classica afro-americana, cosa che purtroppo, in quell’America densa di sopraffazione, brutalità e orgoglio, non le riuscì mai.

Nel 1963 Nina Simone poté esibirsi alla Carnegie Hall, ma non suonando Bach e Mozart, come tanto, in passato, aveva agognato, bensì un repertorio jazz. L’insoddisfazione e la cocente delusione nell’essere stata privata anche di una libertà musicale, la spinsero sull’orlo del baratro: la depressione cominciò a offuscarne la vocazione artistica, la mancanza di uno scopo concreto, la collera che covava, le violenze domestiche, portarono la grande voce del jazz e del blues a chiudersi sempre di più nel vortice che la stava consumando, fino a quando un efferato avvenimento riuscì a svegliarla prepotentemente dal penoso torpore in cui si era rifugiata.

In una chiesa battista di Birmingham, in Alabama, una tranquilla domenica mattina del 1963, nel pieno del sacro rito, scoppiò una bomba che uccise quattro bambine afro-americane. L’attentato, ad opera di alcuni membri del Ku Klux Klan, sconvolse il mondo, rivelando una società malata, deforme e immorale, la stessa raccontata credibilmente, anni dopo, dallo scrittore Pete Dexter nel suo romanzo Il cuore nero di Paris Trout.

Nina Simone riversò tutta la sua rabbia e compassione nella violenta Mississippi Goddam, che interpretò nel 1965 alla Marcia di Selma, dove, seduti di fronte al palco improvvisato, la ascoltarono alcuni tra i più importanti attivisti dei diritti civili: Martin Luther King, Harry Belafonte, Tony Bennett e Ralph Bunche dell’Onu. «E tutti conoscono il maledetto Mississippi / lo vedi / lo senti/ è tutto nell’aria / non ce la faccio più a sopportare la pressione / qualcuno dica una preghiera».

La scia di sangue che lasciarono i pestaggi e le morti sulle strade di Selma, riuscì a scuotere, almeno in parte, l’inconscio collettivo. Il 6 agosto dello stesso anno, il Congresso degli Stati Uniti, su proposta dell’allora presidente Lyndon B. Johnson, approvò il Voting Rights Act, destinato a cambiare la storia legislativa federale statunitense. La fervente passione, l’energia e la creatività di quel periodo, resero Nina Simone assai produttiva. Scriveva, cantava e suonava febbrilmente per aiutare la sua gente, esternando il crudo senso di rifiuto che infettava la società: la musica dei diritti civili, come lei stessa la definiva, divenne la sua vita, riscoprendone un valore altresì pedagogico e curativo. I brani erano così potenti e raffinati, da far evincere una sorta di fierezza dell’identità nera.

In Langston Hughes, il poeta dell’Harlem Renaissance, trovò il prezioso e affezionato collaboratore con cui potesse condividere il tormento e gli ideali. Con Backlash Blues, inserito in Nina Simone Sings the Blues del 1967, la memorabile unione tra l’accorato soul blues della Simone e i versi feroci di Hughes, raggiunse probabilmente la vetta più alta. Nella protesta rivoluzionaria: «Mi dai case di seconda categoria / Mi dai scuole di seconda categoria / Pensi che i neri / non siano che sciocchi di seconda categoria? / Mister Backlash / ti lascerò / con il Backlash Blues», la ricchezza emotiva della battaglia socialmente impegnata di entrambi è assolutamente palpabile.

«Caro Langston, Grazie. (…) Io una cosa so. Ti ho sempre ammirato e sono sempre stata fiera di te», queste sono le calorose parole che racchiudono tutto l’inossidabile legame umano e intellettuale tra i due artisti.

Il sentito messaggio politico della composizione Fables of Faubus, del contrabbassista jazz Charles Mingus, incisa in forma completa per l’album Charles Mingus Presents Charles Mingus del 1960, non è distante da quello di Nina Simone, carico di sentimento. «Oh, Signore, non lasciare che ci sparino! / Oh, Signore, non lasciare che ci pugnalino! (…) Governatore Faubus! / Perché è così malato e ridicolo? / Non permetterà l’integrazione a scuola / Allora è uno stupido!».

Se però Mingus risulta aspramente satirico, facendo emergere un lato critico mordace e a volte sacrilego, la musicista di Tryon manifesta la forza e la determinatezza di una donna inquieta, alla ricerca perenne di una dimensione che le potesse dare motivo di esistere.

Cercando di sfuggire alla prigione della solitudine, Nina Simone credette di aver trovato finalmente la pace e la libertà nella contemplazione di una natura africana animata dal respiro divino, prima di soccombere rovinosamente alla malattia che l’aveva colpita: «In Africa ho visto i fulmini volteggiare invece di lampeggiare (…). L’ho visto! Ho visto Dio».

di Marta D’Ambrosio