Colloquio con don Dante Carraro direttore di Medici con l’Africa Cuamm

Prossimità che salva

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05 novembre 2020

Fondata nel 1950 la ong-onlus italiana è presente in otto Paesi


Da tempo ormai, nell’Occidente contemporaneo, l’indifferenza verso l’altrui patire è vissuta come elemento essenziale al raggiungimento del benessere personale. Il dolore dei singoli, così come quello di interi popoli, suscita sdegni passeggeri e velocemente viene riconsegnato alle sue vittime, che continuano a soffrire in solitudine. Ma il dolore, in tutte le sue forme, ha bisogno di essere ascoltato da qualcuno che sia lì, svelto a intervenire e soccorrere, qualcuno capace di compassione, che sente le ferite altrui come proprie e agisce senza indugio. Felice, generoso esempio di questa prossimità che salva è Medici con l’Africa Cuamm, ong-onlus che lavora per la promozione e la tutela della salute delle popolazioni africane. Fondata a Padova nel 1950, attualmente opera in otto Paesi dell’Africa sub-sahariana: Angola, Etiopia, Mozambico, Repubblica Centrafricana, Sierra Leone, Sud Sudan, Tanzania e Uganda. Non fonda ospedali, ma invia i propri operatori volontari (4.777 di cui 331 italiani) nelle strutture sanitarie per affiancare e sostenere gli staff locali. Lavora per far lievitare buone pratiche, migliorare la qualità dei servizi offerti ai pazienti, formare il personale affinché possa poi continuare autonomamente. Il 7 novembre la ong-onlus terrà il meeting annuale e celebrerà i propri settant’anni: l’incontro si svolgerà negli studi di Tv2000 e sarà trasmesso in diretta. Dell’importante compleanno dialoga con «L’Osservatore Romano» don Dante Carraro, 62 anni, cardiologo, dal 2008 direttore del Cuamm.

Quali sono i principali progetti che negli ultimi anni avete ritenuto strategico avviare?

Il più importante è un progetto pluriennale di cura della maternità denominato «Prima le mamme e i bambini»: è stato promosso perché la mortalità materna e neonatale costituisce uno dei grandi problemi della sanità africana. Lo applichiamo in sette Paesi prodigandoci affinché gli ospedali (al momento dieci) abbiano le necessarie attrezzature e il personale adeguatamente formato. Allo stesso tempo prepariamo persone che si recano nei villaggi per spiegare alle comunità quanto sia importante che le donne siano seguite durante la gravidanza e vadano a partorire in ospedale. Negli ultimi tre anni, inoltre, in Sierra Leone abbiamo creato, in collaborazione con il locale ministero della sanità, il sistema nazionale per le emergenze, l’equivalente del nostro 118: è il primo Paese africano ad essersi dotato di questo servizio. Vi è poi il nostro impegno nell’unico nosocomio pediatrico della Repubblica Centrafricana, quello di Bangui: nel 2015, dopo aver visitato questa struttura, Papa Francesco decise di aiutarla e coinvolse l’ospedale Bambino Gesù di Roma che preparò un grande progetto di sostegno e ci chiese di dare una mano. Accettammo subito l’invito.

Quali gravi problemi della sanità africana la preoccupano maggiormente?

Uno è legato alla pandemia di covid-19: la paura di contrarre il virus nei centri sanitari sta uccidendo infinitamente di più di quanto farebbe il virus stesso. È aumentata la mortalità materna perché le donne vogliono partorire in casa, le vaccinazioni fatte ai bambini sono diminuite del 30 per cento, moltissimi malati cronici non vanno negli ospedali finendo per aggravarsi e, non di rado, morire.

Vi sono poi due grandi problemi: anzitutto quello degli operatori sanitari, che sono pochissimi o mancano del tutto in diversi Paesi. Qualche esempio: in Sud Sudan non opera alcun ginecologo locale e vi è un’ostetrica ogni ventimila mamme. In Etiopia, dove vivono centodieci milioni di persone, si contano solo cinquanta ortopedici. Nella Repubblica Centrafricana i pediatri sono solo quattro, in Sierra Leone non lavora alcun anestesista locale. Noi ci spendiamo moltissimo per la formazione degli operatori sanitari perché la riteniamo cruciale per migliorare la qualità dell’assistenza. Il secondo problema è il costo delle cure, proibitivo per buona parte delle popolazioni. Le spese dei ricoveri, delle medicine e delle visite ambulatoriali nei centri statali sono a carico dei pazienti, i quali spesso — non avendo denaro sufficiente per pagare poiché versano in precarie condizioni economiche — rinunciano a curarsi. Sovente finiscono per aggravarsi e morire. Stiamo studiando alcune possibili soluzioni ma è un lavoro molto complesso.

Nonostante questi drammatici problemi, nel corso dei decenni la sanità africana, anche grazie alla vostra dedizione, ha compiuto alcuni significativi progressi.

Sì e ne siamo fieri. In diversi Paesi il sistema di cura è molto migliorato. In Kenya, ad esempio, i progressi sono stati così formidabili che abbiamo deciso di non operare più in quella nazione. In Nigeria e in Uganda la sanità ora funziona discretamente bene e molti medici locali hanno accettato di lavorare con noi: lasciata la loro patria, si sono messi a disposizione delle popolazioni più bisognose. Esiste un’Africa che aiuta l’Africa».

Il Cuamm è nato per lavorare con l’Africa: nel corso dei decenni avete collaborato con gli ospedali e le università locali, le autorità civili e le Conferenze episcopali dei diversi Paesi, le organizzazioni internazionali e altre onlus: avete sempre stretto alleanze per il bene dei pazienti. La logica dell’alleanza appare particolarmente istruttiva e necessaria in questo tempo segnato dall’individualismo e dal narcisismo (costruirsi da sé e per sé, senza vincoli né debiti con alcuno).

Operare secondo questa logica è essenziale: sedersi intorno a un tavolo, riflettere insieme, stringere alleanze e onorarle per il bene delle popolazioni che soffrono è il solo modo per risolvere problemi complessi. È un’impresa appassionante ma richiede pazienza, comporta fatica. E bisogna mettere in conto che, per non tradire i patti, si può rischiare la vita, come accadde in Sierra Leone durante l’epidemia di ebola quando nessuno dei nostri volle lasciare l’ospedale nel quale ci eravamo inseriti. Dio non abbandona le creature al loro destino: il Cuamm cerca di fare lo stesso.

di Cristina Uguccioni