Il progetto Wasi degli scalabriniani per l’inclusione sociale delle migranti

Sentirsi a casa

Piccola migrante assistita da un’operatrice dell’Agenzia scalabriniana
02 novembre 2020

Adesso Julia è serena. È un nome di fantasia per questa ragazza che si racconta in forma anonima. La speranza che cinque anni fa ha guidato lei e sua madre lontano da El Salvador ha vacillato più volte non appena giunte in Italia. La volontà di rifarsi una vita ha permesso loro di affrontare problemi personali e lavorativi e di adattarsi alla nuova realtà. A salvare le due donne è stata la fede. Tutto è cambiato un anno fa, quando il prete della parrocchia che Julia frequenta ha fatto conoscere alla giovane il neonato progetto Wasi: uno sportello psicologico per donne migranti, finanziato dalla campagna «Liberi di partire, liberi di restare» della Conferenza episcopale italiana e realizzato dall’Agenzia scalabriniana per la cooperazione allo sviluppo (Ascs). Qui Julia e sua madre hanno conosciuto Gabriela del Castillo, psicologa per la comunità di lingua spagnola, che ha intrapreso con la giovane un percorso diretto a conquistare consapevolezza e una rinnovata fiducia nei confronti del futuro, della società e della vita in generale.

«Sono arrivata in Italia con mia madre, spinta da problemi economici», racconta la ragazza. Era il 2016. «Mi ha portato con sé anche perché la situazione nel mio Paese era pericolosa e c’erano tanti problemi di sicurezza per le più giovani. In quel periodo, nel quartiere dove abitavo, si erano verificati anche alcuni episodi in cui hanno rapito sui pullman delle ragazze, stuprate o non più ritrovate». Ciò ha preoccupato molto la famiglia di Julia che ogni giorno, per raggiungere la scuola, viaggiava in autobus per quaranta minuti. La situazione allarma anche le Nazioni Unite che attraverso il Programma di sviluppo per El Salvador gestisce il progetto Mujeres libres de violencia en el transporte público. Secondo l’ultimo bollettino informativo il 90 per cento delle donne salvadoregne ha subito o ha assistito a molestie sessuali a bordo dei trasporti pubblici. Perciò, oltre a proporre la costruzione di rotte sicure, l’Onu cerca di sensibilizzare e di coinvolgere l’intera popolazione.

A diecimila chilometri di distanza dal padre e dai fratelli, Julia e sua madre trovano in Italia alcuni parenti ad attenderle. Per loro è cominciato così un nuovo capitolo del libro della vita. «Da quando sono arrivata ho sempre frequentato la parrocchia di don Alberto», prosegue la giovane. Grazie a lui ha conosciuto il progetto Wasi che il parroco le ha proposto di frequentare e di promuovere tra i suoi coetanei. La parola wasi, termine che deriva dalla lingua quechua parlata nell’America latina, significa casa. Questo è l’obiettivo degli scalabriniani: offrire un luogo protetto e sicuro a tante donne straniere in difficoltà, così che possano sentirsi a casa in senso sia materiale che spirituale. Il servizio si rivolge alle donne migranti per aiutarle a superare i traumi derivanti dal processo di migrazione. Il supporto è dato, presso due parrocchie, da psicologhe di madrelingua spagnola, tagalog, ucraina e russa che sono a disposizione per un ascolto attivo, per un confronto e per condividere esperienze.

La vita del migrante, infatti, è soprattutto una storia che si svolge nello spazio esistenziale: dall’aspetto affettivo e relazionale, talvolta traumatico, alla vulnerabilità di fronte a un nuovo ambiente. Il progetto accoglie un bisogno sociale nascosto di sostegno psicologico che previene effetti aggravanti sulla salute mentale delle persone migranti e sui loro familiari, in particolare sui minori a carico. È un po’ quello che è accaduto a Julia, che confida: «Don Alberto conosceva la situazione che stavamo attraversando io e mia madre. Lei aveva perso il lavoro nel 2017, si era ammalata ed era stata ricoverata in ospedale nel reparto di psichiatria. Soffriva di depressione, un po’ a causa della preoccupazione di non avere soldi da inviare ai miei fratelli, un po’ perché mio padre, da cui ha divorziato, non voleva che mia mamma parlasse con loro, un po’ perché avevamo problemi con l’affitto. Abbiamo dovuto cercare una nuova casa. Non avevamo più niente. Io non sapevo cosa fare. Avevo 17 anni. Stavo in Italia da solo un anno e avevo paura di parlare italiano. Per questo ho avuto problemi anche a scuola. Da allora mamma ha avuto altre tre ricadute. Adesso sta meglio, anche se non è più la stessa».

Oggi Julia è una ragazza serena. Studia con profitto in un istituto superiore. È fidanzata. Da quasi due anni ha un lavoro part time che le permette di pagarsi i libri o la ricarica del cellulare. Ciò è il frutto di un percorso di maturazione, avviato un anno fa dal progetto Wasi, che ha consentito alla giovane di superare un precedente stato di chiusura, di nostalgia per il Paese di origine e di disprezzo per le sue condizioni di vita, rafforzando la volontà di progettare il futuro. «Con Gabriela riesco a essere me stessa — continua la ragazza — perché le persone spesso mi dicono che tutto passa e che andrà bene, ma non è così. A volte si ha solo bisogno che qualcuno ascolti veramente e dia un consiglio obiettivo che aiuti a lungo termine». Per prima cosa Julia ha ricostruito la convivenza con sua madre che era divenuta difficile. Ora la giovane ha aperto le porte al mondo. Vede nuove opportunità. Vuole conoscere tante persone. Il suo sogno è laurearsi e aiutare gli altri con il suo lavoro. La cosa che proprio vuole evitare è che le sofferenze della sua infanzia possano riversarsi sui figli.

«Il progetto Wasi — spiega la referente Lucia Funicelli — ha suscitato un notevole interesse da parte delle donne migranti». Due parrocchie hanno messo a disposizione i locali dove si svolgono gli incontri settimanali, di gruppo o individuali, fra le donne e le psicologhe. Sono spazi intimi in cui ritrovare l’equilibrio e la forza di continuare il proprio percorso migratorio. Da marzo, a causa della pandemia, il servizio prosegue su Whatsapp, Google Meet, Zoom e Skype. «Durante il lockdown le chiamate sono aumentate — spiega Gabriela del Castillo — e oggi chiamano da tutta Italia perché hanno ansia, depressione o attacchi di panico. Molte ci contattano per motivi di lavoro, perché non riescono a gestire i figli adolescenti, perché sono sole, per problemi di coppia o perché hanno avuto un lutto nei paesi di origine». Per questo a ottobre ci saranno incontri dedicati all’elaborazione della perdita di un familiare. Alle donne, protagoniste silenziose delle migrazioni, è dedicato questo prezioso servizio. La storia di Julia è come un punto disegnato su una mappa. Essa rappresenta lo spazio esistenziale del migrante che consente a ogni essere umano di far mente locale per intercettare i propri bisogni nascosti e coltivare la speranza.

di Giordano Contu