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Una storia da riscrivere (e da parte delle vinte)

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24 ottobre 2020

«Due Sinodi ma le donne d’Africa non sono ancora interpellate e incluse»
L’analisi di due religiose, giornaliste, che conoscono bene il Continente


Da qualsiasi punto ci si collochi, voler argomentare dell’Africa, delle Afriche, delle sue donne, dei suoi popoli, e via dicendo, rischia di essere ripetitivo: sembra sia stato già detto tutto. Il cliché è più o meno sempre lo stesso, e anche facendo salti mortali, l’immaginario è immobile e non assorbe più nulla che non rispecchi, a priori, le millenarie preclusioni di una qualsivoglia novità. Eppur, dell’Africa era stato detto: Ex Africa semper aliquid novi!

Alcuni anni fa un giornalista, che di Africa aveva fatto la passione della sua vita, giunse a dire che il tema “Africa” non vendeva più, non tirava sul mercato. Che miopia! Soprattutto, che vuoto di memoria: numeri alla mano, possiamo ricordare che l’80 per cento del benessere del (cosiddetto) nord del mondo proviene dall’Africa.

Dinanzi alla richiesta di «Donne, Chiesa, Mondo» di dire la nostra, due erano le alternative: declinare l’invito, oppure provare a narrare il divenire di questa parte del mondo, focalizzando il racconto su Chiesa, Afriche e Donne. Un bell’azzardo, ma da anni, nel nostro piccolo, cerchiamo di scardinare stereotipi, per decolonizzare lo sguardo e la mente, e così accompagnare una narrazione altra di questo immenso Continente a forma di cuore. Abbiamo perciò scelto la seconda alternativa, con una dovuta premessa: cantata o meno, la liturgia ecclesiale africana non potrà mai essere senza di loro, le sue donne, colonna vertebrale che sostiene e cura il divenire di ogni aspetto della vita.

Africa: parte del mondo

Che si parli dell’Africa, o più elegantemente delle Afriche, per l’immaginario collettivo questo Continente è un mondo a parte. Non così si percepiscono le donne e gli uomini che in questa terra sono nati.

L’Africa non è un mondo a parte, ma parte del mondo. E quello che succede in ogni parte del mondo, nel bene e nel male, succede anche in Africa. Punto. Vale anche per il problema del rapporto donna-Chiesa. Ne vogliamo parlare.

Africa-donna-Chiesa: storia da riscrivere

Una grande figlia d’Africa, la maliana Aminata Traoré, ha scritto: «Se ci si sente mendicanti, ci si comporta da mendicanti. Per recuperare il nostro futuro, la prima cosa da fare è decolonizzare i nostri spiriti». Per far questo, dobbiamo riscrivere la storia, ma questa volta a scriverla dovrebbero essere coloro che sono stati considerati i vinti, o le vinte, in questo caso.

Per troppo tempo l’Africa è stata presente nella compagine sociale come uditrice senza diritti di parola né di replica.

Anche nella Chiesa. Il cammino dell’evangelizzazione in Africa non sempre ha tenuto conto della vita dei suoi popoli come del luogo sacro da sempre inabitato da Dio. Troppo spesso si è omesso di considerare le culture, le credenze, la spiritualità dei popoli d’Africa come il terreno buono sul quale far crescere la pianta rigogliosa del Vangelo. Nel peggiore dei casi, si è fatta tabula rasa, altrimenti si è stratificato il terreno, cospargendolo di semi venuti da terreni altri, favorendo, molte volte inconsapevolmente, una profonda dicotomia tra la vita vissuta, da sempre, nel solco domestico della Religione Tradizionale Africana, e la Buona Notizia di Gesù, molte volte presentata da una moltitudine di Chiese tra loro divise e persino contrapposte.

Nonostante venga considerato un “polmone di spiritualità” — così Papa Benedetto XVI aveva definito l’Africa nell’apertura della seconda Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei vescovi, il 4 ottobre 2009 — oggi ci troviamo con un Continente dove la percentuale di cristiani è sì alta, ma il messaggio di liberazione che è la Buona Notizia fatica a trovare piena cittadinanza nelle pieghe della quotidianità di milioni di donne e di uomini.

L’esperienza della trasformazione insita nel messaggio cristiano è stata recepita in maniera straordinariamente vivace nelle liturgie, dove non si contano le ore per celebrare la bellezza del credere, ma sono ancora troppi i popoli che usciti da celebrazioni calorose e colorite, si ritrovano a vivere dentro situazioni di marginalità, di impoverimento, e di ingiustizia indicibili che profondamente offendono la stessa dignità umana e la verità del Vangelo.

Inoltre, ci sembra che alla Chiesa che è in Africa, e quindi alla Chiesa universale, manchino ancora pagine fondative di narrazione, storie inedite di uomini e donne che hanno saputo trasformare il messaggio di Cristo in vita vissuta, pagando a caro prezzo la loro esistenza a favore di una testimonianza cristallina ai valori del Vangelo. Lo sappiamo bene, ci sono uomini e donne che ci hanno regalato pagine di riflessioni coraggiose, una teologia africana capace di toccare le corde dell’anima dei suoi popoli, una singolare letteratura che, con una molteplicità di stili, celebra il significato e lo scorrere delle molte stagioni della vita e degli eventi che l’accompagnano con una chiarezza esemplare. Eppure ancora troppo poco si sa… Ci piacerebbe conoscere, per esempio, il genere di bibliografia usata nei seminari o nelle case di formazione religiose africane. Quale nuova generazione può sorgere da questi luoghi che marcano il percorso della fede in una comunità cristiana, se non si ha il coraggio di avvicinarli alla fonte viva delle proprie radici e delle proprie culture? Continuare a dare in prestito, anche con le migliori intenzioni, sapere, opere, idee, concetti, teologie, santità… altro non fa che rafforzare lo stereotipo che rappresenta l’Africa come un contenitore che solo riceve. Quindi, bisogna riscrivere la storia. Ci sono già, grazie a Dio, volumi importanti, ma bisogna avere il coraggio di leggerli, di condividerli, di appropriarsene, di divulgarli. Pochi anni fa, quando già il vento delle intolleranze era forte e diversi confini incominciavano a trincerarsi, Lilian Thuram, calciatore francese nato a Guadalupa, scrisse il libro Le mie stelle nere, da Lucy a Barack Obama. Nella prefazione scrive: «Durante l’infanzia mi hanno indicato molte stelle. Le ho ammirate, sognate: Socrate, Baudelaire, Einstein, il generale De Gaulle… Ma nessuno mi ha mai parlato delle stelle nere… Non sapevo nulla dei miei antenati». E così prende il coraggio a due mani, e va a scovare quasi cinquanta uomini e donne, nell’immenso firmamento di quelle stelle nere a lui sconosciute.

Ripensando quindi alla storia del Continente, e in particolare alla storia della Chiesa in Africa, siamo già in ritardo nel narrare il divenire dell’esperienza cristiana e della sua incidenza sulla società a partire da uomini e donne, giovani e anziani, che nei secoli hanno tracciato la via africana alla santità. Sfogliando calendari liturgici o martirologi universali sembrerebbe che per le sante e i santi africani il reato di clandestinità vige anche in Paradiso! Senza dimenticare che è ormai inderogabile una narrazione della fede che racconti in modo olistico la discepolanza sulle orme del Nazareno.

Non è questione di permalosità se diciamo che per troppi secoli l’Africa è stata guardata dall’alto in basso, ma un dovere di giustizia e di verità. Coraggio, dunque, donne d’Africa che leggete queste pagine. Insieme dobbiamo avere il coraggio di indicare le stelle nere che illuminano il firmamento della Chiesa universale, perché prendendo in prestito ancora Thuran «ogni persona ha bisogno di stelle per potersi orientare, ha bisogno di modelli per costruire l’autostima, per cambiare il suo immaginario, infrangere i pregiudizi che proietta su di sé e sugli altri».

Un Sinodo ascoltando le donne

Papa Benedetto XVI, nell’Udienza generale del 14 febbraio 2007, disse: «La storia del cristianesimo avrebbe avuto uno sviluppo ben diverso se non ci fosse stato il generoso apporto di molte donne. Per questo, come ebbe a scrivere il mio venerato e caro Predecessore Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica Mulieris dignitatem, la Chiesa rende grazie per tutte le donne e per ciascuna... La Chiesa ringrazia per tutte le manifestazioni del “genio” femminile apparse nel corso della storia, in mezzo a tutti i popoli e nazioni; ringrazia per tutti i carismi che lo Spirito Santo elargisce alle donne nella storia del Popolo di Dio, per tutte le vittorie che essa deve alla loro fede, speranza e carità: ringrazia per tutti i frutti della santità femminile».

Noi osiamo suggerire che non solo la storia del Cristianesimo, ma tutta la storia della salvezza, dalla prima Eva alla Donna dell’Apocalisse, sarebbe stata tutta un’altra storia senza la presenza e il contributo femminile.

Nelle due Assemblee Speciali del Sinodo dei vescovi per l’Africa (1994 e 2009) si è parlato del ruolo della donna nella Chiesa. Sono emerse proposte, promesse, e tanti infiniti piccoli passi, ma nulla in confronto alle aspettative serbate in cuore dalle comunità cristiane e dalle loro donne.

Certo, i Sinodi sono piattaforme e areopaghi privilegiati che il Papa convoca per ascoltare, conoscere, condividere e per illuminare i passi della Chiesa nel segno della sinodalità. Ma se nella Chiesa è genuina la domanda su come avviare un dialogo aperto alla questione femminile (sicuramente non ci identifichiamo come “una questione”), ci viene da dire: perché in un futuro Sinodo non lasciare che siano le donne a parlare al Papa, a raccontare, spiegare, e collegialmente indicare le strade da seguire per un loro coinvolgimento maggiore dentro e a favore di tutta quanta la Chiesa? Sarebbe straordinario poterlo fare magari parlando della Chiesa d’Africa!

Il viaggio di Papa Francesco in Centrafrica, per aprire la Porta santa in occasione del Giubileo straordinario della Misericordia, è stato un esempio lampante di vicinanza alla sofferenza e alla speranza di un popolo che da troppo tempo soffre le conseguenze di molteplici tensioni e di interminabili incertezze.

Non temere di nominare la donna

Per parlare adeguatamente dell’Africa, della Chiesa e delle donne che sostengono questo continente sulle loro spalle (Chiesa compresa) dobbiamo cambiare lo sguardo, il timbro di voce, e soprattutto il linguaggio. Che sempre denota una mentalità.

Che triste sentire certi ministri ordinati rivolgersi a donne consacrate come se stessero parlando a bambine da educare e accompagnare. Così parlando di Africa, dei suoi popoli, delle sue donne, delle consacrate, sentire frasi come «queste Chiese sono (sempre) troppo giovani»; «hanno ancora tanto bisogno là»; «non sono ancora pronte/pronti»; «non faranno mai quello che abbiamo fatto noi!». Denota la mentalità di chi osserva questo Continente con un malcelato senso di superiorità, e considera questi popoli più vittime che interlocutori.

Eppure le donne in Africa non sono lì ad attendere che qualcuno vada a salvarle. Le donne in Africa, da tempi immemorabili, camminano a piedi nudi e portano il Continente sulle loro spalle (Chiesa compresa). Sono loro che si prendono cura dell’umanità, sempre, e che pagano con la propria vita la vita degli altri. Sono loro che conservano e trasmettono la fede. Guardandole con occhi trasparenti, sembra di vederle avvolte da un filo invisibile che le tiene unite, tutte. Sembra di sentire ogni mattina, l’abbraccio caldo di queste milioni di mani femminili che sorreggono, accarezzano, cullano l’umanità ferita dei popoli d’Africa.

La questione del linguaggio, poco considerata, e sottovalutata, ha invece, a nostro giudizio, una importanza rilevante. La Chiesa, e in particolare gli uomini nella Chiesa, devono imparare a nominarci e non sottintenderci. Non è mero esercizio di sintassi quando cerchiamo di usare, e di pretendere, un linguaggio inclusivo. Il problema è che a furia di non includerci nei suoi discorsi la Chiesa ci rende invisibili pure a noi stesse.

Durante la seconda Assemblea Speciale del Sinodo dei vescovi per l’Africa, al quale una di noi ha partecipato come uditrice (suor Elisa, ndr) avevamo auspicato che i vescovi si rivolgessero alle donne in maniera inedita chiamandole “Amatissime sorelle e madri dell’Africa”. E avevamo suggerito pure cosa dirci… «ci rivolgiamo a voi come figli innanzitutto: perché siete voi le educatrici della pace, della concordia, della riconciliazione. A voi oggi chiediamo di camminare insieme a noi lungo il processo di rinascita, di guarigione, di giustizia per la nostra Africa. Voi, che da sempre, percorrete ogni mattina le nostre strade e ne conoscete millimetro per millimetro, ci farete da guida e ci indicherete quali percorsi scegliere, per non perderci nei meandri di discorsi senza fine… A voi affidiamo il presente e il futuro delle nazioni».

Sono passati undici anni da quel Sinodo, e le donne d’Africa attendono ancora di essere interpellate e incluse. Nel frattempo, una silenziosa schiera di comunità cristiane continua a dare testimonianza al Vangelo, la “Buona Notizia” intessuta nella carne e nella quotidianità del Continente che ha accolto Gesù, profugo in Egitto, e lo ha aiutato a portare la Croce, in quel Simone, originario di Cirene, «incontrato sulla via» (cfr. Matteo 27, 32).

Ma non perdiamo la speranza. Del resto, è a noi donne che per primo è stato consegnato l’annuncio della Risurrezione!

Vocazioni

Mentre nel resto del mondo la penuria di vocazioni sta già causando gli effetti collaterali (invecchiamento, immobili immensi e vuoti, gap generazionale ultra large), in Africa da anni la vita consacrata femminile, e non solo, trova un terreno fertile sul quale crescere ed espandersi. Eppure tra i corridoi degli Istituti di antica fondazione questa vivacità non viene vista sempre con grande simpatia.

Anche qui le usuali retoriche: «ma sono vocazioni vere? Vengono da noi per stare meglio, di sicuro per studiare». Luoghi comuni, certo, ma che fanno male. Le vocazioni ministeriali e religiose che sorgono in Africa sono un dono che Dio fa alla Chiesa, per il bene di tutta la Chiesa e dell’umanità. Certo, il discernimento è sempre d’obbligo, in Africa come ovunque.

La vita religiosa africana sta incidendo profondamente nella vita della Chiesa e della società. Significative le parole di suor Giuseppina Tresoldi, missionaria comboniana che per anni ha seguito, a nome della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, il cammino delle religiose in Africa: «Entrano nel tessuto sociale e della Chiesa e vi portano una trasformazione operando nei settori vitali della educazione, sanità e formazione cristiana della gente. La potenzialità della vita religiosa in Africa è fuori discussione. Come incanalare la ricchezza dei diversi carismi e ministeri all’interno della Chiesa per la sua crescita e santificazione facendone risaltare il volto africano, resta una grande sfida per ogni Congregazione e vescovo diocesano». Da qui, l’appello ai vescovi, di guardare alla vita consacrata femminile con più equità e rispetto, e a non pensare solo ai seminari e alla formazione dei presbiteri, ma dare pari opportunità di formazione professionale anche alle religiose e alle laiche. Per qualificare la loro ministerialità e beneficiare della loro esperienza.

Appello alle donne

Le religiose e le donne che vivono in ogni angolo d’Africa (come del resto in altri Paesi del mondo) debbono avere il coraggio di chiedere che la Chiesa ci guardi con gli occhi di Gesù, che seppe riconoscere nella donna una leale co-protagonista del suo Mistero Pasquale ed esigere lo spazio che è nostro all’interno dei luoghi in cui si votano le decisioni che riguardano la nostra stessa vita e la vita delle nostre comunità: umane, di fede, di appartenenza culturale. Debbono essere presenti nei percorsi che prevedono la formazione olistica della persona, non solo dentro progetti per lo sviluppo umano, ma anche all’interno dei seminari, perché si ampli la visione della donna non solo compresa come madre, sorella, cuoca… ma come studente, docente, teologa, professionista. E reclamare di più l’urgenza della nostra corresponsabilità ecclesiale, non come eccezione bensì come consuetudine.

Non è un percorso semplice, lo sappiamo. Ma sulle orme delle innumerevoli Madri d’Africa, le giovani generazioni sono invitate al coraggio della resilienza. O, meglio, della resistenza. Perché meglio esprime la fatica, la fierezza, e la caparbietà che accomuna le donne africane. Che resistono perché i loro popoli possano esistere. Anche per riappropriarsi di quelle radici antiche della storia, che onora l’Africa non solo come culla dell’umanità, ma anche come custode della Terra dove tutte e tutti abbiamo imparato a guardare verso il Cielo.

di Elisa Kidanè e Maria Teresa Ratti
Elisa Kidanè è missionaria comboniana. Nata in Eritrea, ha svolto la sua missione in Ecuador, Perú e Costa Rica, poi in Italia come giornalista nelle riviste comboniane. Nel 2009 ha partecipato al secondo Sinodo per l'Africa.
Maria Teresa Ratti è missionaria comboniana e ha vissuto 17 anni in Kenya. Giornalista, ha scritto per la rivista «New People» di Nairobi ed è stata direttrice di «Raggio-Combonifem» — rivista della sua congregazione – dal 2006 al 2011.