Un modello di impegno concreto per l’integrazione

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03 ottobre 2020

Con il crollo del Muro del Berlino finiva il mondo della guerra fredda e della contrapposizione dei blocchi. L’immagine dei manifestanti in festa alla Porta di Brandeburgo era solo il prologo di una stagione di rivoluzioni inimmaginabili pochi anni prima, in primis il crollo dell’Unione sovietica. Capolavoro politico del cancelliere Helmut Kohl, la riunificazione tedesca è stata uno degli esiti di quella stagione e uno dei principali banchi di prova del processo di integrazione europea. A trent’anni di distanza il bilancio è però ancora controverso e complesso, soprattutto dal punto di vista economico. Ne abbiamo parlato con Carlo Altomonte, senior research fellow dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) e professore all’università Bocconi, esperto in politica economica e commerciale.

Da un punto di vista economico, la riunificazione tedesca è stata un bene o un male per l’Europa?

L’Europa ha avuto sicuramente dei vantaggi. La riunificazione, politicamente, ha aperto la via alla moneta unica e al processo di unificazione monetaria. Senza la riunificazione tedesca probabilmente non avremmo avuto l’accordo tedesco a mettere in comune la loro moneta del tempo, il marco, a disposizione di tutti gli altri. C’è stato uno scambio tra Francia e Germania. Inoltre, la riunificazione ha aperto la via alla integrazione dei Paesi dell’Est Europa e questo ha permesso di ampliare il mercato e di creare quella struttura produttiva continentale che oggi rappresenta il nostro punto di forza rispetto ai giganti come Cina e Stati Uniti.

E per la Germania che cosa ha comportato?

La riunificazione all’inizio è costata molto alla Germania perché l’aggiustamento non è stato banale. Pensiamo anzitutto ai trasferimenti che la Germania dell’Ovest ha dovuto fare per alzare il tenore di vita dei cittadini dell’Est e ridurre disparità regionali che peraltro persistono ancora oggi. È stata molto pesante anche per l’Europa perché ovviamente ha dovuto aprirsi ad economie molto più povere. Oltre ai trasferimenti dai bilanci comunitari verso questi Stati, c’è stata tutta una serie di rilocalizzazioni industriali di produzioni a basso valore aggiunto che usavano tecnologie avanzate italiane, francesi e tedesche sfruttando salari di questi Paesi. Sicuramente, quindi, l’Europa ha avuto uno shock nei primi anni Novanta, che è stato il primo vero shock da globalizzazione. Dalla metà degli anni Novanta in poi, grazie all’aumento del tenore di vita nei Paesi dell’Est e alla nostra capacità di esportare verso questi Paesi, e anche alle riforme realizzate dai governi tedeschi soprattutto nel mercato del lavoro, la Germania è riuscita a diventare un Paese molto forte, soprattutto sul piano delle esportazioni.

La leadership europea del tempo fu in grado di gestire lo scenario che si apriva dopo la caduta del Muro e quindi la riunificazione? In realtà, fu una decisione politica sofferta: Thatcher e Mitterand, ma non solo loro, temevano una Germania unita.

Al di là delle tensioni, credo che da un punto di vista politico la leadership del tempo seppe gestire in modo positivo la situazione, anche perché non c’era un altro modo di rispondere alla domanda di democrazia e di libertà che arrivava dall’Oriente. L’Europa nasceva come progetto di pace e di prosperità, democrazia e benessere. Questo progetto sarebbe stato messo in discussione dalle radici se si fosse chiuso in se stesso e non fosse riuscito a portare i suoi benefici ad altre persone meno fortunate, in fondo appartenenti a Paesi che da sempre sono culturalmente europei. Una chiusura avrebbe minato alle basi il processo politico di integrazione. Il problema sono stati i costi di questa operazione e le diseguaglianze che ha creato. L’apertura al commercio internazionale genera in media benefici, che sono in media superiori ai costi, e quindi fa crescere l’economia, ma possono anche crearsi sacche di disuguaglianza e sofferenza. Va detto che nel momento in cui la Germania ha dovuto gestire la riunificazione e l’apertura a Est ha sfruttato molto bene l’Europa e le istituzioni europee; insomma ha puntato molto sull’integrazione. In una fase successiva, purtroppo, Berlino ha abbandonato il suo europeismo concentrandosi su se stessa, e la risposta alla crisi del 2008 ce lo ricorda. La crisi covid-19 invece, secondo me, ribalta ancora una volta la situazione: Berlino sta capendo che da sola non può farcela e che il suo futuro deve passare attraverso una ricentratura della sua economia in linea con l’Unione.

L’unificazione tedesca può essere un modello per costruire il nostro futuro al di là dei contrasti e delle tensioni attuali?

Più che la riunificazione, che è inevitabilmente connessa a un determinato scenario storico, un modello può venire dallo spirito politico del tempo, ovvero l’impegno solidale dei tedeschi dell’Ovest nei confronti dei tedeschi dell’Est. Cittadini colpiti da un destino avverso che avevano necessità di agganciarsi ai Paesi più forti hanno ricevuto un sostegno. Questo è l’aspetto di quella vicenda storica che oggi dobbiamo riscoprire.

di Luca M. Possati