Architettura e cura dell’ambiente

Un equilibrio cruciale

L’Hotel Parkroyal di Singapore progettato nel 1994 dallo studio Woha
13 ottobre 2020

Un rivoluzionario cambio di prospettiva è considerarsi in uno spazio fisico modellato dall’uomo e al contempo parte di un disegno più grande che non vede due parti separate e antagoniste


Esperta di tecnologia dell’architettura e docente al Politecnico di Milano, Ingrid Paoletti ha anticipato in questo articolo scritto per il nostro giornale le tesi che esporrà sabato 17 in una lectio presso la Mole Vanvitelliana di Ancona nell’ambito di «KUM!» Festival. Dedicata alla cura e alle sue diverse pratiche, la manifestazione propone una tre-giorni di riflessioni incentrate sulle trasformazioni dovute alla pandemia. Direttore scientifico del Festival — che può essere seguito anche in live streaming  — è Massimo Recalcati, mentre Federico Leoni è il coordinatore scientifico.

Chi non è mai entrato in un ambiente e si è sentito a suo agio, ha tirato un sospiro di sollievo, si è emozionato. Ecco in quel momento quel luogo si è preso cura di noi. La parola ambiente viene da ambiens , che è il participio presente di ambire, nel significato di andare intorno, circondare, avviluppare. In francese è ancora più chiaro, è l’environment , il tedesct Umwelt .
Ecco, dunque, uno spazio che ci avvolge, nel quale possiamo sospendere per un attimo il moto quotidiano e prendere fiato, astrarci dal reale, fantasticare.  A ognuno il suo.

Ma qual è l’ambiente di oggi? Forse dobbiamo cambiare la percezione di ciò che abbiamo intorno. L’evolversi delle modalità di interazione tra uomo e costruzioni, tra natura e artificio, tra analogico e digitale, sembrano perdere la separazione netta che per molto tempo ci ha di fatto allontanato da un vero sentire. Si lavora in città per “scappare” il fine settimana, si torna alla natura per compensare le fatiche, si costruisce lasciando da qualche parte uno scarto che non vogliamo vedere.

Credo invece che un primo, vero, rivoluzionario cambio di prospettiva sia quello di allentare questi confini, di immaginare che un piano compenetri l’altro, che possiamo considerarci al contempo in un ambiente, un luogo, uno spazio fisico modellato dall’uomo e insieme parte di un disegno più grande che non vede due parti separate e antagoniste.
In questa prospettiva le categorie di naturale, costruito, artificiale sfumano a favore del movimento, della trasformazione continua, dell’habitat che si adatta agli esseri che lo vivono in una continuazione negoziazione con le condizioni al contorno.

Questo modo di vedere permette anche di ripensare la categoria dello scarto. Se progettando i nostri spazi, oggetti e percorsi di vita,  lasciamo indietro chi è caduto in una visione del progetto lineare, qualcosa ci tornerà sempre indietro in tutta la sua violenza. È il rifiuto, l’inquinamento, l’emarginato.
Dobbiamo invece, riallacciare gli estremi del nostro modo di comportarci e produrre: dalla miniera sino al riuso senza perdere il flusso di informazioni e la responsabilità lungo tutta la filiera.
Nella famosa equazione della massa, i termini sono l’input, che viene lavorato, al quale consegue come risultato l’output, il consumo di energia, e infine l’accumulo. Principalmente l’equazione è legata all’entropia e alla conservazione dell’energia, che è una regola fondamentale del mondo materiale.

Il termine su cui porre tutta la nostra attenzione è la questione dell’accumulo, facendo sì che non sia un resto ma piuttosto un reso. Che non è soltanto una parola con una lettera in meno, ma che definisce chiaramente che il reso è conoscenza, esperienza, memoria per le generazioni a future.
Ciò non vuole dire che non possiamo più immaginarci di creare e modificare il nostro ambiente continuamente, ma che piuttosto il gesto attento all’ambiente incorpora intenzionalmente il durare nel tempo, tiene viva l’attenzione, calibra energia e movimento, considera la materia e il suo impatto sul pianeta in un equilibrio inedito quanto cruciale.
Se pro-gettare viene da pro-iecto , gettare in avanti, allora possiamo usare la sua forza anticipatrice per incorporare nel nostro disegno il dechet  e scartare solo ciò che ci è utile a rinnovarci ogni giorno, a trasformarci. Solo così potremo veramente incidere sul nostro ambiente, diventare una collettività responsabile, risuonare con gli spazi e e ambire a un luogo che si prenda di cura di noi.

Lo racconta con maestria Italo Calvino, ne La poubelle agrèè , dove lo scrittore si sofferma sul valore e il peso dello scartare come un’operazione di rinnovamento che si compie ogni mattina e necessario perché siamo tutti consapevoli della correlazione delle nostre scelte. Cosicché io nel momento in cui svuoto la pattumiera piccola nella grande e trasporto questa sollevandola per i due manici fuori del nostro ingresso di casa, pur ancora agendo come umile rotella del meccanismo domestico, già m’investo d’un ruolo sociale, mi costituisco primo ingranaggio d’una catena di operazioni decisive per la convivenza collettiva, sancisco la mia dipendenza dalle istituzioni senza le quali morrei sepolto dai miei stessi rifiuti nel mio guscio d’individuo singolo, introverso e (in più d’un senso) autista. Di qui devo partire per chiarire le ragioni che rendono agréée  la mia poubelle : gradita in primo luogo a me, ancorché non gradevole; come è necessario gradire il non gradevole senza il quale nulla di quel che ci è gradito avrebbe senso.

di Ingrid Paoletti