Amy-Jill Levine rilegge il Vangelo dalla prospettiva ebraica

Le parabole non sono fiabe

Una pagina del celebre «Haggadah di Sarajevo» (XIV secolo)
03 settembre 2020

Nel suo recentissimo Le Parabole di Gesù, i racconti enigmatici di un rabbi controverso (Cantalupa, Effatà editrice, 2020, pagine 384, euro 18) Amy-Jill Levine definisce “perle della saggezza ebraica” le parabole con le quali Gesù era solito argomentare, di fronte alle folle e in occasioni più intime. La studiosa, ebrea ortodossa e dal 2019 visiting professor al Pontificio Istituto Biblico, aggiunge che «se le ascoltiamo nel loro contesto originale brillano di una luce che non può rimanere nascosta».

Il punto di vista della Levine nei confronti della interpretazione dei racconti didattici di Gesù è molto diretto. Innanzitutto ritiene che vada liberata dalla pesanti incrostazioni di anti ebraismo che l’hanno caratterizzata troppo a lungo. Gesù era un ebreo fedele alla proprio tradizione religiosa che parlava a degli ebrei, rispettando il contesto anche culturale nel quale erano immersi. Tutti gli apostoli erano anch’essi ebrei e all’ambito ebraico appartiene l’intera tradizione delle scritture neotestamentarie. Andare in cerca al loro interno di allegorie che condannino le norme di purità israelite o che presentino la buona novella come una dottrina che si contrappone all’insegnamento biblico rappresenta una forzatura e in molti casi rischia di nascondere il senso vero delle parabole stesse.

Di frequente l’omiletica ne offre una spiegazione buonista, consolatoria, semplicistica, che assegna ruoli obbligati ai protagonisti e finisce con il gratificare gli ascoltatori e rassicurarli nei loro comportamenti tiepidi. Non era certo questo l’intento di Gesù, sostiene la Levine. Le parabole non sono fiabe a lieto fine, nelle quali riconoscere buoni e cattivi risulta semplice e identificarsi con i primi quasi automatico. Le cose sono ben diverse. Più volte il testo evangelico segnala l’intento provocatorio della predicazione di Gesù, lo sconcerto generato persino nei discepoli, la volontà che gli appartiene di aiutare quanti lo ascoltano a mettere in discussione il proprio modo di agire, a convertirsi, ad accogliere un messaggio basato sull’amore in modo coerente con l’insegnamento biblico.

Del resto, commenta l’autrice, è proprio la capacità di rappresentare le complessità della vita, in tutta la sua ricchezza, che rende preziosa la predicazione di Gesù e le parabole che ne fanno parte, e, per una non credente come lei, ciò contribuisce a dare ragione dello straordinario successo che essi hanno avuto.

Per comprendere il senso delle parabole evangeliche risulta necessaria una conoscenza della società ebraica dei primi decenni del millennio, non condizionata dall’antiebraismo che si trova alla base della teologia della sostituzione, ormai superata e abbandonata, che immaginava il popolo ebraico come deicida, privato del patto stretto con Dio e sostituito in esso dalla cristianità.

Nel libro Levine affronta una decina di parabole, dal Figliol prodigo agli Operai nella vigna e si impegna a rileggerle al di là delle semplificazioni, e a volte delle vere e proprie mistificazioni, che ne hanno condizionato la letture nel corso dei secoli.

La tecnica si fa evidente fin dall’approccio a “Un uomo aveva due figli…”, l’incipit della parabola del Figliol prodigo. Per ascoltatori ebrei queste non sono parole qualsiasi, avverte l’autrice. Nella Bibbia si tratta di una situazione ricorrente la cui evocazione suscita subito una ridda di richiami ad altre coppie di fratelli: Caino e Abele, Ismaele e Isacco, Esaù e Giacobbe, Manasse e Efraim. All’interno di ciascuna di queste famiglie i rapporti sono tesi, in un caso fino all’omicidio, ma le minacce di morte sono presenti anche in altre occasioni.

Anche nella parabola evangelica il gioco dei rapporti tra i protagonisti non è lineare, sostiene Levine: lo schema padre-Dio, figlio minore-gentili, figlio maggiore-popolo ebraico, non è applicabile nel contesto della predicazione di Gesù. Lo stesso pentimento del prodigo appare discutibile, mentre le ragioni del maggiore, che nessuno si è neppure premurato di andare a richiamare dai campi per partecipare alla festa organizzata dal padre in onore del fratello, non risultano prive di fondamento. Si può aggiungere che il figlio perduto non è il giovane, il cui rapporto con il genitore non sembra conoscere passaggi critici, quanto il maggiore, nei confronti del quale la disattenzione paterna risulta evidente.

Le parabole, insiste Levine, non sono allegorie, rappresentazioni semplificate di realtà di livello teologico. Quasi sempre esse si riferiscono alle situazioni, alle cose e alle persone che descrivono. Le monete sono monete, le pecore sono pecore e i padri sono padri. Con il seguito di problemi familiari che questo comporta, con le preferenze all’interno della figliolanza, le disattenzioni e le incomprensioni che l’abitudine a volte crea e con le quali dobbiamo combattere. Gesù richiama alla necessità di essere attenti agli altri, con continuità.

Anche il celebre confronto tra il fariseo e il pubblicano nel Tempio, con il primo che ringrazia per la vita di devozione, persino eccessiva, che Dio gli consente di fare e il secondo che dichiara la propria pochezza umana, chiede una considerazione più approfondita. Levine suggerisce perfino una riflessione sul significato da attribuire alla preposizione greca para, solitamente tradotta nel finale della parabola in senso oppositivo “Questi” cioè il pubblicano “a differenza dell’altro, tornò a casa giustificato”. In greco para assume spesso un significato causale. Il senso sarebbe allora che grazie all’impegno del fariseo anche il pubblicano trova giustificazione. L’aspettativa di una salvezza collettiva, che come dice san Paolo abbracci l’intero creato, fa parte della fede ebraica e da essa confluisce in quella cristiana, cattolica in particolare. L’intercessione, la distribuzione della grazia concessa, è propria di questa tradizione. Molti aspetti delle parabole si possono ripensare e approfondire, con l’aiuto prezioso di una studiosa ebrea, generosa nel mettere a disposizione di tutti le proprie riflessioni, attente e motivate, su testi che provengono dai luoghi dove è radicata la storia del suo popolo.

di Sergio Valzania