In un libro di Eberhard Schockenhoff

La testimonianza come martirio

Lorenzo Lotto, «Lapidazione di Santo Stefano» (1513-1516)
23 settembre 2020

Il 18 luglio 2020, in seguito a un tragico incidente domestico, è morto all’età di 67 anni il professor Eberhard Schockenhoff, docente di teologia morale all'Università di Friburgo in Brisgovia (Germania). Nato a Stoccarda, era considerato uno dei teologi morali europei più illustri, voce etica sentita non solo nell’ambito ecclesiale ma in tutta la società tedesca. La sua morte ha trovato un’eco insolitamente grande anche sui media laici. Uno dei suoi libri, «Fermezza e resistenza. La testimonianza di vita dei martiri» (Queriniana, Brescia, 2017, pagine 264, euro 24), è stato oggetto di una recensione da parte di un collega e amico dell’Università di Trieste, testo che pubblichiamo per intero.

Nell’ormai lontano 1973, il gesuita Xavier Tilliette, parlando di un famoso «Convegno Castelli» che si era tenuto l’anno prima a Roma — con la partecipazione, oltre che dello stesso Tilliette, fra gli altri di Ricoeur, Levinas, Gadamer, Rahner, Vattimo, Ellul, Marcel — scriveva che la nozione di testimonianza è stata demonetizzata attraverso un uso abusivo e sconsiderato del termine. Per recuperarne il senso originario, occorre tener presente che per un cristiano «Gesù Cristo è il testimone fedele e veridico e i suoi discepoli sono i suoi testimoni». E i martiri sono, secondo l’etimologia del termine, dei testimoni, anzi i testimoni per eccellenza, tanto che in essi la testimonianza trova il suo compimento. Ma qual è la sua accezione non lata, nei suoi caratteri principalissimi?

Su questo tema si concentra il pregevole volume, in edizione italiana, di Eberhard Schockenhoff, Fermezza e resistenza. La testimonianza di vita dei martiri. Schockenhoff, professore all’Università di Freiburg, vice-presidente della Commissione federale tedesca per l’etica, è una delle figure più affermate nel panorama teologico contemporaneo. La fisionomia della sua instancabile attività scientifica, in un dominante clima culturale di scompiglio delle idee, è mossa dall’intento di mettere a fuoco i temi e i problemi etici oggi più urgenti, per ritrovare delle costanti e assicurare la stabilità e la continuità di una risposta. Tra i suoi libri, non a caso, spicca il volume su Diritto naturale e dignità umana. Etica universale in un mondo storico (1996). In esso, il centro di gravità è la tesi che «con la realtà della persona umana e dei suoi fini esistenziali vitali è data una base che è previa a ogni strategia di comportamento e di consenso», che può perciò elevarsi a una etica concreta, senza cadere in contraddizione o in una erronea visione rigidamente naturalistica della vita.

In questo contesto si inserisce anche l’accento che egli ha messo sul tema della vocazione al martirio, per capire se e in che modo esso può avere un senso «anche per altri, per la fede e la vita di tutti i cristiani e della Chiesa intera». Per mettere a fuoco e valutare questo aspetto, occorre sottrarre i martiri dalla sfera meramente celebrativa, e avere una rappresentazione precisa dei loro propositi di uomini di fede, nella loro vita concreta. Questo disegno da Schockenhoff viene svolto con rigore nei cinque capitoli che compongono il suo volume. Egli riconosce che i martiri «sono ammonitori scomodi», manifestano tratti di una durezza sconcertante, che nella società attuale provoca «in molti uno strano malessere» (pag. 26). Proprio questo disagio è uno dei motivi di fondo che giustificano e rendono più che mai necessaria una teologia del martirio, che si spinga al di là della pura e semplice ricerca storico-antropologica, per così acquistare consapevolezza del senso del sacrificio della vita dei martiri, e poi individuare e mettere in chiaro «i moventi che guidarono i martiri di tutti tempi» (pag. 31).

Il punto di volta obbligato, su cui innestare altre considerazioni, è costituito dalla concezione che i primi cristiani avevano dei martiri, cioè dell’idea di «una strettissima unione a Cristo, come il compimento non solo del suo amore perfetto, ma anche della sua cruenta morte sulla croce» (pag. 37). Questa visione, fondata sui testi biblici, nel corso della storia si è diramata in varie configurazioni e ha conosciuto ampliamenti, trasformazioni. Per Clemente di Alessandria il tratto distintivo del martire cristiano, che gli conferisce autenticità, è «la testimonianza dell’amore che si dimostra nella libera accettazione della morte» (pag. 126). Agostino, al contrario di Eusebio, poi, definisce un vero martire solo colui che «nel quale è premiata la carità». Nel XX secolo il concilio Vaticano II (Lumen gentium, 42, 3) parla di martirio, accettato liberamente, come «suprema probatio caritatis» (suprema prova di carità). Infine non pochi martiri moderni (cfr. Andrea Riccardi, Il secolo del martirio. I cristiani nel Novecento, Milano, 2000), come Massimiliano Kolbe, hanno reso «una testimonianza speciale dell’amore seguendo il modello biblico di Stefano (cfr. Atti, 7, 55-60), perdonando i loro carnefici e pregando per loro» (pag. 135).

Un caso paradigmatico moderno di questo modo di intendere il martirio (testimonianza), secondo Schockenhoff, è rappresentato dalla figura del gesuita Alfred Delp (1907-1945), con il suo invito, rivolto alle varie confessioni religiose cristiane, a porsi «al servizio dell’uomo», per costruire un nuovo ordine sociale, per essere dalla parte di «chi non ha diritti e con i poveri e mettere alla prova “con mani scorticate” la loro solidarietà coi sofferenti; soltanto così esse potranno anche in futuro annunciare il loro messaggio religioso e operare come credibili “mandatarie di Cristo”» (pag. 158). In forza di quest’esigenza, lo sbocco è quello di far sì che la Chiesa debba essere, come prima conseguenza, una sancta in vinculis (unica Chiesa santa in catene). Si tratta, qui, di un concetto maturato in un contesto di resistenza al nazismo, che portò il giovane gesuita al martirio. L’espressione implica un’idea di testimonianza che esige «una unità ecumenica nell’impegno comune per l’uomo», perché «nei martiri comuni è presente la cristianità indivisa e la divisione della Chiesa è superata fin da principio» (pag. 188). In particolare, «attraverso la comune sopportazione dell’ingiustizia nei lager di annientamento e nelle prigioni del Terzo Reich e del comunismo dell’Europa orientale si formò la convinzione che nella comune testimonianza di Cristo vi è una coappartenenza religiosa, le cui radici stanno nell’unico battesimo e nella fede nell’unico vangelo e che sono più profonde di tutte le differenze nelle esplicitazioni dottrinali di questa fede» (pag. 189).

Queste esperienze sono quindi un presupposto e lo sfondo, che non ha riscontro nei secoli precedenti, che ha consentito la realizzazione di «un martirologio comune» (Giovanni Paolo II), tanto che nel «Martirologio tedesco del XX secolo si trova un esplicito accenno alla testimonianza di fede dei martiri protestanti, e in particolare sono citati Dietrich Bonhoeffer, i membri della “Rosa Bianca” Hans e Sophie Scholl e il pastore Karl Friedrich Stellbrink» (pag. 208). Per poter essere adeguatamente compresi, questi esempi hanno bisogno di essere visti alla luce della visione che il cristianesimo delle origini aveva del martirio.

In particolare occorre considerare tre aspetti. 1) La confessione di fede e l’impegno per la realizzazione del regno di Dio non possono essere visti come due realtà disgiunte tra di loro. Per le prime comunità cristiane la testimonianza non era un affare esclusivamente privato, ma richiedeva una confessione pubblica, con evidenti ripercussioni, anche di tipo politico, sulla vita pubblica dei fedeli, in netto contrasto con la concezione totalitaria «del culto romano dell’imperatore, e reclamava contro di esso il diritto di Dio all’obbedienza degli uomini» (pag. 221). Tutto ciò si intrecciava e si combinava, a sua volta, con l’annuncio del regno di Dio e della sua giustizia (Matteo, 6, 33) e il Discorso della montagna, con la sua obbligazione morale a favore dell’impegno per la giustizia, che poteva condurre anche al martirio, alla persecuzione e alla morte, come Gesù stesso aveva annunciato e incarnato esemplarmente nella sua persona. 2) L’impegno per la realizzazione del regno di Dio, «dopo l’attestazione della fede nella creazione [...] deve essere visto come seconda motivazione fondamentale della concezione teologica del martirio. I perseguitati a causa della giustizia possono quindi legittimamente essere definiti martiri nel senso proprio e “qualificati testimoni di Cristo”» (pag. 222). 3) Occorre tenere nella massima considerazione la coappartenenza tra amore di Dio e amore del prossimo, come emerge da tutti i testi del Nuovo Testamento, che non ammette eccezioni e si traduce in una «intima unione tra amore di Dio e amore del prossimo» (pag. 223). In proposito, per Schockenhoff, san Tommaso, nel suo commento alla Lettera ai Romani, riconosce a chiare lettere che «per Cristo non soffre solo chi soffre per la fede in Cristo, ma anche colui che per amore di Cristo soffre per qualsiasi opera della giustizia» (pag. 228).

Questo discorso pone le basi per ulteriori considerazioni. E cioè, se i martiri sono anche coloro che soffrono e patiscono una morte violenta per le ingiustizie subite, per la difesa dei diritti degli oppressi e dei poveri, non comporta tutto ciò necessariamente un allargamento dell’area semantica coperta dal termine martirio? In altre parole, è possibile qualificare il martirio racchiudendolo solo all’interno del cristianesimo o è possibile intendere il termine in senso più ampio? Il Vaticano II, in Lumen gentium 16, trattando del rapporto Chiesa-non cristiani, dice che tutti sono ordinati alla salvezza e che perciò il disegno salvifico abbraccia non soltanto coloro a cui furono dati per primi i due Testamenti, ma «anche coloro che riconoscono il Creatore» e si impegnano a «compiere con le opere la volontà di Dio». Si può, quindi, a ragione per Schockenhoff, affermare che «anche non cristiani, per mezzo della loro fedeltà alla coscienza e del loro energico impegno a favore della giustizia e della pace, possono compiere atti di amore di Dio che consentono di definire martirio il loro volontario morire. Si può allora parlare con Karl Rahner di stili variabili del martirio e distinguere il martirio subito per la giustizia o per altre convinzioni morali» (pag. 231).

Riconosciuta l’evidenza di questo discorso, appare chiaro, dunque, che qui abbiamo a che fare con la testimonianza/martirio con una verità fondamentale non solo del cristianesimo, ma anche di una testimonianza per il dolore e la morte subita «per la giustizia o per altre convinzioni morali». Pertanto, non è più possibile operare una netta cesura tra i due termini, che vengono così a essere inscindibili, ed è egualmente vana la pretesa di negare il «titolo d’onore in senso pieno» a quelli che sono morti per il loro impegno a favore dei poveri e dei perseguitati. Tutt’al più lo si potrebbe attribuire a questi ultimi «in un senso improprio».

Ma qual è l’insegnamento che possiamo trarre oggigiorno dai martiri? Per Schockenhoff è possibile ricapitolare il discorso fin qui svolto in quattro punti essenziali. 1) «La speranza cristiana nella vittoria della vita passa attraverso la croce e la morte, non le tocca soltanto di striscio» (pag. 241). 2) La memoria dei martiri ci fa acquistare consapevolezza del fatto, rinsaldando così la fede dei singoli e della comunità, che ci sono state persone che hanno respinto la via comoda dell’adattamento, orientando le loro azioni verso istanze di religiosa assolutezza. 3) L’esempio di vita dei martiri, quale emerge nella libera accettazione per Cristo del dolore e della morte violenta, ci mostra e dimostra che la speranza cristiana supera e realizza pienamente le contingenti situazioni esterne. 4). E così la loro testimonianza può essere presa a termine di riferimenti costanti, per la difesa di un «impegno personale dei fedeli a testimoniare Cristo nella propria vita e a non desistere nella dedizione per la causa per la quale i martiri morirono» (pag. 244). Privato di questi suoi tratti, il termine testimonianza/martirio verrebbe a essere singolarmente impoverito, proprio nel suo significato più genuino e si risolverebbe in una sistematica negazione dei concetti fondamentali del cristianesimo. L’attuazione concreta di questo discorso si inserisce, poi, nel contesto delle molteplici sfide a cui è dichiaratamente rivolto «lo sguardo di Papa Francesco, nella Evangelii gaudium, soprattutto alle sfide sociali, e specialmente al problema dei poveri e della povertà [...] Per Papa Francesco è questo oggi uno dei molti problemi, se non il problema chiave, da affrontare» (Walter Kasper, Papa Francesco. La rivoluzione della tenerezza e dell’amore. Radici teologiche e prospettive pastorali, Brescia, 2015, pagina 105).

di Antonio Russo