I vescovi colombiani chiedono il rispetto dei diritti umani

Il conforto della Chiesa agli sfollati interni

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25 settembre 2020

La Colombia è il secondo Paese al mondo per numero di sfollati interni. A questi a maggio Papa Francesco ha dedicato il messaggio per la Giornata mondiale del rifugiato e del migrante che si celebra il 27 settembre. In 50 anni nello Stato latinoamericano 5,5 milioni di persone sono state costrette ad abbandonare la propria dimora a causa di conflitti e violenze. La situazione è migliorata dopo il 2016, anno in cui il governo e le Forze armate rivoluzionare colombiane (Farc) hanno firmato un accordo di pace. Tuttavia, di recente gli scontri si sono riacutizzati con altri gruppi armati. La Chiesa locale è impegnata a promuovere il dialogo. «È importante cercare di costruire ponti per mettere in contatto i governanti e coloro che si trovano al margine della legge», dichiara a «L’Osservatore Romano», monsignor Héctor Fabio Henao Gaviria, direttore del Segretariato nazionale per la Pastorale sociale e di Caritas Colombia. «Occorre portare fiducia e sollievo alle popolazioni che vivono in mezzo alla violenza, sotto il controllo di uomini armati, senza una vera libertà. Dobbiamo ricordare che ci sono tante vittime e vedove in queste comunità povere, che hanno sofferto a lungo e che vedono in prima linea i propri figli, rapiti e trasformati in bambini soldato».

Il 2020 non è iniziato bene. Nei territori lungo il confine con l’Ecuador e il Venezuela si sono verificati scontri causati da dissidenti delle ex Farc che hanno ripreso in braccio le armi, dai guerriglieri dell’Esercito di liberazione nazionale (Eln) e dalle bande criminali legate al narcotraffico. A imporsi sono state queste ultime che ora controllano le strade attraverso cui trasportano la droga fino all’Oceano Pacifico. Il prezzo più alto lo ha pagato la gente comune, in particolare gli indigeni e le popolazioni afro-colombiane, tra i quali c’è chi ha venduto il proprio appezzamento di terra ed è emigrato, mentre altri vivono confinati nelle proprie comunità.

«La situazione non è drammatica come lo era 15 anni fa, ma oggi si fa di giorno in giorno più complessa perché, c’è un problema di restituzione dei diritti», ha affermato il presule, nominato di recente coordinatore della Commissione per gli affari territoriali nel Consiglio nazionale per la pace. Da anni, infatti, si discute su cosa fare per ridare dignità a oltre 8 milioni di persone e «finalmente la Corte Costituzionale ha sollecitato il governo a trovare soluzioni adeguate». Gli sfollati interni colombiani, in genere, vivono in città in uno stato di povertà estrema. Sono ex contadini costretti con la propria famiglia ad abbandonare ogni possedimento a causa della pressione di gruppi armati che vogliono impadronirsi della loro terra o controllare la regione. Altri migrano, invece, per sfuggire dalle violenze di queste bande armate che si scontrano tra loro o con l’esercito nazionale.

A settembre alcune diocesi e varie organizzazioni umanitarie hanno denunciato le difficili condizioni di vita e il mancato rispetto dei diritti umani nei dipartimenti costieri del Chocó, Nariño e Cauca, e nell’entroterra ad Arauca. Da decenni la Chiesa locale promuove la pace a vari livelli. «Per prima cosa ci sono le iniziative di protezione delle comunità e dei loro leader locali che sono in prima linea con azioni che comportano un alto rischio», racconta monsignor Henao Gaviria. Per esempio, l’estirpazione delle piante di cocaina o la protezione del patrimonio idrico di fiumi e di laghi. Ciò ha portato ad un aumento del numero degli omicidi, «anche privi di una vera ragione e senza che vi fosse una reale minaccia». Secondo il ministero della giustizia colombiano sono 400 i leader sociali e politici uccisi tra il 2016 e il 2019. I civili che hanno perso la vita, invece, quest’anno sono 230 secondo il centro studi Indepaz.

«Una seconda cosa che facciamo è promuovere lo sviluppo locale per creare opportunità», prosegue il direttore per la pastorale sociale. Con la pandemia questo aspetto si è rivelato un importante strumento contro l’impoverimento del Paese. Sono «iniziative produttive concrete» finanziate dalle Caritas locali ed europee, dal governo e da altre organizzazioni. Come la creazione di una rete di 1050 piccoli produttori di caffè basata sul concetto di sviluppo sostenibile dal punto di vista economico, ambientale e sociale nel dipartimento di Cauca e di Huila. Oppure la realizzazione di aziende di acquacoltura come quella che a Caquetá ha dato la possibilità a 90 ex guerriglieri Farc di rifarsi una vita lontano dalle armi e dalle violenze. «Ciò che è molto importante — precisa — è rafforzare la progettazione della comunità affinché vivano meglio in futuro».

«Un terzo gruppo di interventi è dedicato alla protezione dei diritti umani. È rivolto agli sfollati interni e ai migranti, in particolare quelli provenienti dal Venezuela» tra i quali oltre 214.000 sono stati aiutati dalla Chiesa locale e dalle Caritas. Agli sfollati è offerta una «risposta integrale» che tenga conto degli «effetti fisici ed emotivi» provocati dall’abbandono della patria o della propria casa. L’obiettivo è quello di ricucire il tessuto familiare e sociale mediante la speranza e l’autostima. Sostenere un loro progetto di vita in concreto significa: garantire la sicurezza alimentare, sussidi per la casa, l’accesso all’acqua potabile e corrente, ma anche celebrare insieme, istruire, educare all’igiene, informare sulla attualità. Tutte iniziative che hanno il sostegno finanziario del Dicastero per lo sviluppo umano integrale e della Sezione migranti e rifugiati. «Un altro lavoro importante si rivolge alle comunità indigene dell’Amazzonia», prosegue monsignor Henao Gaviria. Un territorio che occupa oltre il 40 per cento della regione. Durante la pandemia l’episcopato colombiano ha proposto al governo di creare ospedali da campo, di assicurare aiuti alimentari, di tutelare l’economia informale, la biodiversità e le frontiere. Senza dimenticare la lotta alla deforestazione e al cambiamento climatico.

I progetti più complessi riguardano la pace: dall’implementazione dell'accordo stipulato nel 2016 fra il governo e le Farc, alla pacificazione delle comunità locali. Iniziative sostenute anche dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e che hanno portato alla costruzione di un programma di reinserimento sociale per gli ex combattenti delle Farc che hanno deposto le armi. «La Chiesa ha sempre detto che attraverso il dialogo occorre trovare una soluzione politica», aggiunge il direttore per la Pastorale sociale. È un percorso lungo e pieno di ostacoli. Per favorire la riconciliazione è stata creata una rete cattolica globale che comprende il Colombia Working Group di Caritas Internationalis, il Catholic relief services (Crs), Adveniat, Misereor e Papa Foundation. Insieme a Ecuador e Cuba la Colombia tratta con l’Esercito di liberazione nazionale, una confederazione di gruppi armati che, tra sospensioni e ripresa dei negoziati, ha accettato di limitare i sequestri. Non c’è dialogo, invece, con i narcotrafficanti, privi di un’ideologia politica e che non combattono solo per rendere fiorenti i loro traffici illeciti.

«Oggi la grande sfida per la Comunità internazionale e per la Colombia è la protezione delle comunità, ma soprattutto dei leader sociali e degli ex combattenti che ora si occupano del processo di pace», prosegue il presule. Questa è una crisi umanitaria composita. Il fenomeno degli sfollati, infatti, ha una doppia dimensione: interna e una esterna. Sotto quest’ultimo aspetto vanno considerati i due milioni di venezuelani che negli ultimi anni hanno attraversato il confine a causa delle tensioni politiche. Durante la pandemia c’è stato un controesodo, ma ora hanno ripreso a tornare in Colombia. Senza dimenticare che il Paese è una terra di mezzo attraversata da flussi migratori provenienti da tutta l’America latina, dall’Asia e dall’Africa con destinazione Panamá, Centroamerica e infine Stati Uniti. Oggi, conclude monsignor Henao Gaviria, «la Giornata mondiale de migrante e del rifugiato ci ricorda che siamo una grande famiglia». Con la pandemia «è come aver chiuso un capitolo dell’umanità per aprirne un altro. Ora dobbiamo aprirci all’altro, perché dipendiamo gli uni dagli altri e sappiamo di essere membri di un unico popolo».

di Giordano Contu