I novant’anni di Clint Eastwood su «La Civiltà Cattolica»

Una vita che rincorre il fato

Clint Eastwood in «Gran Torino» (2008)
03 agosto 2020

Pubblichiamo stralci da un articolo uscito nell’ultimo numero del quindicinale dei gesuiti «La Civiltà Cattolica».

Clint Eastwood, classe 1930, è regista, attore, produttore cinematografico statunitense e più volte vincitore di Oscar, Golden Globe e David di Donatello. Negli anni Sessanta ha impersonato spesso il volto del cowboy «buono» e «giusto» nei western diretti da Sergio Leone, in particolar modo nella cosiddetta «Trilogia del dollaro»: Per un pugno di dollari (1964), Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto, il cattivo (1966). Gli anni Settanta lo vedono soprattutto impegnato nel ruolo dell’ispettore Callaghan, Dirty Harry, duro e dalla pistola facile, che cerca di riportare, con metodi al limite della legalità, la giustizia fra le strade violente di San Francisco. Ma è soprattutto con gli anni Novanta che Eastwood comincia la sua ascesa come regista e interprete di film che apparterranno alla storia del cinema.

Con il film Gli spietati (Unforgiven) (1992), Eastwood porta a compimento l’insegnamento di Sergio Leone — al quale, insieme a Don Siegel, è dedicato il film —, dirigendo e interpretando un western che sancisce il culmine e forse anche la fine di questo genere. Se infatti i cowboy dei film western sono stati sempre personaggi dal grilletto veloce, senza scrupoli né rimorsi nell’ammazzare in duelli o in imboscate, ne Gli spietati i protagonisti — William Munny (Clint Eastwood) e Ned Logan (Morgan Freeman) — mostrano l’incedere del tempo che ha piegato il loro fisico, e le audaci imprese e scorrerie sembrano un lontano ricordo. Uccidere non sembra poi così facile, come afferma William Munny dopo che il giovane e inesperto Schofield Kid dichiara di aver ammazzato uno dei responsabili dello sfregio al volto di una prostituta: «È una cosa grossa uccidere un uomo. Gli levi tutto quello che ha e tutto quello che sperava di avere».

Tuttavia il finale del film sarà ancora all’insegna della vendetta, secondo la più classica tradizione western, nei confronti di chi ha ucciso.

La misericordia, ossia il farsi prossimo nei confronti degli umiliati della vita, è presente nel film Gran Torino (2008). Eastwood indossa i panni di Walt Kowalski, un duro reduce della guerra di Corea, il quale, dopo la morte della moglie, stringe amicizia con un adolescente, Thao, e con la sua famiglia. Questo fatto lo porterà a fronteggiare una banda violenta di giovani criminali.

Il film si apre con un funerale, nel quale le parole del giovane sacerdote risuonano vuote e di circostanza, i giovani parenti sembrano aver perso il senso del sacro e della morte, i figli stessi di Kowalski sono ormai distaccati da un padre che «vive ancora negli anni Cinquanta».

Come in molti film di Eastwood, la famiglia non è il luogo degli affetti e della concordia — come possiamo vedere anche in Million Dollar Baby e nel più recente The Mule (2018) — e sembra rappresentare piuttosto il luogo dell’incomprensione e della separazione.

Se nel film Gli spietati è la vendetta che riporta un equilibrio, nel film Gran Torino, sebbene le ultime scene facciano pensare a un duello finale a colpi di arma da fuoco, la giustizia viene attuata mediante l’immolazione del protagonista.

Eastwood indaga attraverso il cinema gli aspetti essenziali dell’esistenza, portando sul grande schermo quelle problematiche e tematiche sulle quali ogni uomo riflette e alle quali cerca di dare una risposta. In Million Dollar Baby (2004), vincitore di quattro Oscar (miglior film, miglior regista, migliore attrice protagonista, miglior attore non protagonista) mette in scena una storia di ascesa e riscatto sociale di una ragazza che decide di intraprendere la carriera pugilistica.

La pugile Maggie Fitzgerald (Hilary Swank), proveniente da una piccola città del Missouri, riesce a convincere il burbero Frankie Dunn (Clint Eastwood) ad allenarla. Questi è un uomo solitario, con forti sensi di colpa, il cui unico amico sembra essere Scrap (Morgan Freeman), un ex pugile rimasto cieco da un occhio durante un incontro che Frankie non ha voluto interrompere.

I protagonisti sono entrati tutti in contatto con la violenza e la povertà della vita: riprendendo la metafora della boxe, potremmo dire che sono andati al tappeto, ma hanno avuto «la forza in qualche modo di rialzarsi». E se la prima parte del film è l’ascesa continua della talentuosa ragazza e del legame sempre più forte tra lei e il suo allenatore — quasi a mostrare come dalla vita ci si possa riscattare —, improvvisamente, a causa di una scorrettezza della violenta campionessa in carica Billie Astrakhov, la giovane Maggie cade a terra battendo la testa proprio contro lo sgabello che Frankie aveva posto all’angolo per farla riposare al termine del round. La caduta la renderà tetraplegica.

Il film sembra avere un’impostazione propria della tragedia sofoclea: il fato si ripresenta sempre, non lasciando alcuno scampo, neanche fuggendolo. Proprio il momento di massima ascesa — la sfida con la campionessa in carica — coincide anche con il precipitare verso un abisso da cui Maggie non riuscirà più a uscire. La caduta mostrerà la fragilità e la meschinità degli affetti familiari, con la madre e la sorella di Maggie che cercheranno di portarle via i soldi guadagnati con i suoi successi.

L’unico che rimane fedele alla ragazza è Frankie, che sembra aver stretto con lei un’alleanza di sangue, che sarà versato fino alla fine. Sul fronte opposto, aveva stipulato un altro patto di fedeltà e di giustizia: il malmesso ex pugile Scrap, che tiene aperta la palestra di Frankie, interviene duramente contro il capo di un gruppo di pugili boriosi che avevano malmenato, all’interno della palestra, un giovane ragazzo, anch’egli solitario e con problemi psicologici.

Quelle di Maggie, Frankie e Scrap sono vite solitarie che si sono incontrate e che verranno portate al limite. Spesso la luce inquadra questi volti di tre quarti, mostrando la luminosità e l’oscurità che pervade le loro vite. Non ci sono vincitori, ma vinti che continuano la propria vita mostrando una pietas, espressa nelle proprie contraddizioni e nei propri dubbi esistenziali.

Nel 2009 Eastwood dirige il film Invictus, un bio-pic sulla vita di Nelson Mandela, interpretato dall’inseparabile attore e amico Morgan Freeman e tratto dal romanzo Playing the Enemy: Nelson Mandela and the Game that Made a Nation, di John Carlin, liberamente ispirato a fatti di cronaca. In questo film il regista sceglie tinte molto chiare per far risaltare i personaggi, in particolare Nelson Mandela che, una volta ottenuta la presidenza, cerca in tutti i modi di ricucire le ferite provocate dall’apartheid, utilizzando il gioco del rugby come scommessa per una riappacificazione e una ricostruzione del tessuto sociale del Sud Africa.

Anche in questo caso Eastwood vuole raccontare una storia che da una possibile, e anche logica, scelta di vendetta — una volta asceso al potere, Mandela avrebbe potuto vendicarsi di tutte le ingiustizie compiute dai bianchi durante l’apartheid nei confronti del suo popolo: una scelta che tutti si aspettavano — sfocia in un’altra soluzione, più complessa, ambiziosa: la ricostruzione sociale e umana di un popolo attraverso il perdono dei soprusi ricevuti a causa di una lunga politica razzista. Ognuno deve imparare e accettare il mondo dell’altro, anche se ciò può costituire un elemento di odio e di rancore.

I personaggi portati sullo schermo da Eastwood non hanno nulla di eroico, nel senso comune del termine, ma sono uomini e donne che, trovandosi all’interno di una situazione limite, obbediscono alla coscienza, sempre tra le luci e le ombre della propria umanità. Non a caso, nella regia cinematografica del regista americano i volti dei protagonisti, come abbiamo già affermato, sono spesso inquadrati con una luce laterale che, se rischiara in maniera forte una parte del volto, lascia l’altra zona nell’ombra o nell’oscurità. Sono le tinte forti dell’esistenza, della gravità delle scelte, nella consapevolezza che forse non andrà tutto bene.

Ma anche in questa tortuosità della vita, di abissi che si aprono, speranze che si chiudono, dolori che si devono affrontare, rimane l’idea che l’unica vera strada consista nell’affrontare l’esistenza nella consapevolezza che la vita si esprime attraverso la relazione con l’altro. Interessante, a questo riguardo, è il delicato finale di Hereafter (2010), in cui la giornalista Marie Lelay e il sensitivo George Lonegan, dopo avere attraversato peripezie che li hanno condotti a riflessioni metafisiche, s’incontrano in un caffè all’aperto a Londra. In questo incontro, sembra suggerire Eastwood, c’è tutta la vita: il presente, unico tempo dato, che è presupposto per un futuro che richiederà scelte di responsabilità e di bellezza, come avviene nella storia d’amore di Marie Lelay e George Lonegan, che sembra iniziare proprio al termine del film.

di Claudio Zonta