· Città del Vaticano ·

Nel suo messaggio al mondo

Sei attuali «Vogliamo»

La prima pagina del 28-29 agosto 1978 con il testo del radiomessaggio «Urbi et Orbi»
26 agosto 2020

Nell’incarico «unico e singolare della Cattedra romana “che presiede alla carità universale”», il pontificato di Albino Luciani era iniziato con la massima semplicità e con gesti che testimoniavano la decisa volontà di riscoprire la dimensione essenzialmente pastorale dell’ufficio papale. Tra questi è da considerare singolare come la prima decisione presa appena eletto sia stata quella di non aprire immediatamente il Conclave invitando i cardinali anziani rimasti fuori ad ascoltare, con il resto del Collegio, il suo primo messaggio al mondo. In quel messaggio Urbi et orbi, pronunciato il 27 agosto 1978, la rotta non solo del suo pontificato si delineava con chiarezza nei sei programmatici «Vogliamo». «Volumnos» nei quali, a più riprese, dichiarava in ogni modo di continuare l’attuazione del concilio Vaticano II preservandone l’eredità e impedendone derive. Sono questi i sei «vogliamo» puntualizzati da Giovanni Paolo I: «Vogliamo continuare nella prosecuzione dell’eredità del Concilio Vaticano II, le cui norme sapienti devono tutt’ora essere guidate a compimento [...]. Vogliamo conservare intatta la grande disciplina della Chiesa... sia nell’esercizio delle virtù evangeliche, sia nel servizio dei poveri, degli umili, degli indifesi [...]. Vogliamo ricordare alla Chiesa intera che il suo primo dovere resta quello dell’evangelizzazione per annunciare la salvezza [...]. Vogliamo continuare l’impegno ecumenico... con attenzione a tutto ciò che può favorire l’unione [...]. Vogliamo proseguire con pazienza e fermezza in quel dialogo sereno e costruttivo che Paolo VI ha posto a fondamento e programma della sua azione pastorale [...]. Vogliamo infine favorire tutte le iniziative che possano tutelare e incrementare la pace nel mondo turbato».

Sono esattamente le priorità in cantiere di un Pontefice che con limpidezza intendeva percorrere e ha fatto progredire la Chiesa lungo le strade maestre indicate dal concilio. «Mi spiego. Al Concilio io c’ero e ho firmato nel ’62 il messaggio dei Padri al mondo... Ho firmato anche la Gaudium et spes» affermerà nel corso dell’udienza generale sulla speranza il 20 settembre. «Quando Paolo VI ha fatto uscire la Populorum progressio mi sono commosso, entusiasmato, ho parlato, ho scritto. Anche oggi sono davvero persuaso che non si farà mai abbastanza dalla gerarchia, dal Magistero, per insistere, per raccomandare il dialogo sereno e costruttivo, i grandi problemi della libertà, della promozione dello sviluppo, del progresso sociale, della giustizia e della pace; e i laici mai abbastanza si impegneranno a risolvere questi problemi». E l’affermazione che segue, — omessa nelle edizioni ufficiali — seppure immediatamente ribattuta dalle cancellerie, conduce ancora dritti a quegli impegni elencati che tessono e cifrano il suo breve pontificato, in particolare sul fronte della ricerca della pace: «In questi momenti ci viene un esempio da Camp David. Ieri l’altro il Congresso americano è scoppiato in un applauso che abbiamo sentito anche noi quando Carter ha citato le parole di Gesù: “Beati i facitori di pace”. Io veramente mi auguro che quell’applauso e quelle parole entrino nel cuore di tutti i cristiani, specialmente di noi cattolici e ci rendano veramente operatori e facitori di pace».

Del resto, proprio il favorire la riconciliazione e la fratellanza tra i popoli, invitando alla collaborazione per «l’edificazione, l’incremento tanto vulnerabile della pace nel mondo turbato» e arginare i nazionalismi come all’interno delle nazioni «la violenza che solo distrugge e semina solo macerie» è — insieme all’impegno ecumenico e interreligioso, documentato dalla fitta agenda di udienze con i rappresentanti delle Chiese non cattoliche — posto a priorità nel discorso programmatico di Giovanni Paolo I. L’impegno ecumenico e interreligioso ai fini dell’unità, della fratellanza e della pace tesse l’intero mese di pontificato. Ed è significativo della volontà di favorire l’unità con le Chiese sorelle d’Oriente, come già nell’omelia del 3 settembre, egli avesse nominato nei saluti a tutto il popolo, dopo i cardinali, i patriarchi delle Chiese orientali, menzione poi espunta dal testo ufficiale. Il 2 settembre incontra in udienze successive nella biblioteca privata i delegati di numerose confessioni non cattoliche poi presenti alla celebrazione del 3 settembre. Il Papa auspicò la necessità di proseguire il dialogo tra le comunità cristiane avviato dal concilio e di cercare nella preghiera l’unità voluta da Cristo. Anche la mattina del 5 settembre fu dedicata alle udienze con le delegazioni delle Chiese e comunità non cattoliche convenute a Roma e durante queste udienze morì improvvisamente tra le sue braccia il metropolita della Chiesa ortodossa russa Nikodim (1929-1978), metropolita di Leningrado e Novgorod, esarca patriarcale per l’Europa occidentale e presidente dell’ufficio del patriarcato di Mosca per i rapporti tra le Chiese ortodosse e le altre Chiese.

Si tratta di prospettive che ritornano anche nell’allocuzione al corpo diplomatico tenuta il 31 agosto nella quale definisce la natura e la peculiarità dell’azione diplomatica della Santa Sede che sgorga da uno sguardo di fede e si indirizza — sulla scia «della Costituzione conciliare Gaudium et spes come in tanti messaggi del compianto Paolo VI» — nel solco della grande diplomazia che molti frutti ha dato alla Chiesa alimentandosi con la carità. In continuità con Giovanni XXIII e Paolo VI, Giovanni Paolo I illustra il contributo che la Chiesa può dare alla costruzione di un’umanità fondata sulla fratellanza: sia a livello internazionale, collaborando alla ricerca delle migliori soluzioni per la pace, la giustizia, lo sviluppo, il disarmo e i soccorsi umanitari, sia a livello pastorale, collaborando nella formazione delle coscienze dei fedeli e di tutti gli uomini di buona volontà.

Così il 4 settembre, ricevendo gli oltre cento rappresentanti delle missioni internazionali, riprende i medesimi motivi sottolineando come «il nostro cuore è aperto a tutti i popoli, a tutte le culture e a tutte le razze» e afferma: «Non abbiamo, certo, soluzioni miracolistiche per i grandi problemi mondiali, possiamo tuttavia dare qualcosa di molto prezioso: uno spirito che aiuti a sciogliere questi problemi e li collochi nella dimensione essenziale, quella dell’apertura ai valori della carità universale... perché la Chiesa, umile messaggera del Vangelo a tutti i popoli della terra, possa contribuire a creare un clima di giustizia, fratellanza, solidarietà e di speranza senza la quale il mondo non può vivere».

Bastano queste limpide e basilari considerazioni pronunciate quarantadue anni fa da un Papa per 34 giorni al Soglio di Pietro per riflettere sulla stringente attualità del suo messaggio che lo affratella a quello dell’attuale vescovo di Roma. E quanto sia stato un gesto importante l’istituzione di una Fondazione vaticana dedicata a Giovanni Paolo I affinché la sua eredità teologica, culturale e spirituale possa essere pienamente ripresa e studiata.

di Stefania Falasca