A colloquio con Pierluigi Bartolomei dell’Istituto Elis

Cambiare tutto
Per ripartire sul serio

Uno dei ragazzi che partecipa al progetto «Ape operaia»
31 agosto 2020

Il profeta è «il realista delle distanze» scrive Flannery O’Connor in uno dei suoi appunti tanto brevi quanto folgoranti (ma vale la pena di leggere integralmente anche tutti gli altri saggi contenuti nella raccolta Mystery and Manners, è tempo ben speso). Anche un educatore è chiamato ad essere un «realista delle distanze» perché, come il profeta, dev’essere in grado di vedere possibilità e strade dove tutti gli altri vedono solo problemi e limiti. A questa dimensione “alta” del lavoro del formatore (o meglio, del “form-attore”, in questo caso; nel box in pagina viene spiegato da quale circostanza nasce questo neologismo) non si sottrae Pierluigi Bartolomei, preside della Scuola di Formazione Elis di Casal Bruciato. Come si legge nel suo blog, Bartolomei è «felicemente sposato, nonostante i suoceri, con Emanuela, padre di Teresa, Giovanni, Pietro, Agnese e Stefano, responsabile di una organizzazione non governativa che promuove programmi di cooperazione allo sviluppo nei cinque continenti, e docente di comunicazione efficace e public speaking».

L’educazione non è un optional, è un bisogno primario, come mangiare, bere e ricevere cure mediche. Eppure spesso è la Cenerentola del dibattito (politico e non). Perché tanta miopia, e così generalizzata?

Non dobbiamo ignorare o sottovalutare i messaggi che ci arrivano dalla realtà. Il settanta per cento dei ragazzi che hanno fra i 14 e i 18 anni va a scuola controvoglia. Molti genitori lasciano la scuola italiana e scelgono gli istituti internazionali. Due segnali che indicano una comune esigenza: ripensare la scuola. Durante il semestre di presidenza Acea del consorzio Elis abbiamo stretto un patto con centosette scuole pubbliche di tutta Italia per aiutarle a trasformare la didattica: docenti e studenti ci hanno detto che non è possibile mettere una pezza su un vestito vecchio perché questo lacera ulteriormente il vestito. Occorre un vestito nuovo, ripartire da “prato verde” con una visione nuova, un nuovo paradigma dell’educazione. La scuola come luogo di eudaimonia, fioritura della personalità di ciascun studente, scoperta e sviluppo del proprio talento. Una scuola che sviluppa esplicitamente l’intelligenza relazionale ed emotiva (affianco a quella cognitiva) fattore determinante del successo lavorativo e del benessere della persona. Una comunità educante formata da studenti e docenti, tutti impegnati nel trasformare ogni esperienza in apprendimento, sul modello delle botteghe rinascimentali dove si imparava lavorando su progetti reali estraendo la componente tacita della conoscenza, ovvero quella conoscenza che si manifesta solo attraverso relazioni umane, tra un maestro e un apprendista.

Il “rischio” della libertà dell’allievo; come far fronte a questo imprevisto continuo? Ci sono strategie, trucchi del mestiere o  tecniche speciali per mantenere desta l'attenzione dello studente?

Sogno una scuola dove uno studente possa dire “Nooo; ancora!” allo squillo della campanella, dispiaciuto perché la lezione è volata e la curiosità di saperne di più è stata innescata. Non è così impossibile, ci sono docenti che riescono a “dare corpo”, a un testo, a un argomento, a renderlo vivente e, per questo, interessante. Se c’è o non c’è un rapporto amoroso cambia tutto. Ci deve essere un amore inteso, “passionale” tra l’insegnante e la sua materia. Quando non c’è questa scintilla le testimonianze dei ragazzi sono impietose. «Non si può stare seduti per cinque anni in un’aula con la stessa ventina di persone — ci dicono con franchezza — per cinque, sei, sette ore consecutive al giorno ad ascoltare, molto spesso passivamente, professori che parlano di materie che sono sì e no di nostro interesse o che siamo certi che non saranno pertinenti con ciò che vorremo fare dopo». Nelle società moderne la quasi totalità delle scuole sono centrate su alcuni cardini: l’apprendimento cognitivo, lo studio mnemonico, l’interrogazione-interrogatorio. Ed è così che la scuola è un divenuta un obbligo da sopportare. La scuola dovrebbe essere una giusta miscela di piacere, impegno e competenze. Una scuola così concepita è una scuola che deve avere insegnanti molto motivati.

Quelli che Edgar Morin e don Milani definiscono insegnanti per missione.

E un buon insegnante sa che il proprio ruolo è sempre sia istruttivo che educativo. Vorrei un ambiente fatto di stanze colorate, di scaffali con tanti volumi e di tavoli dove si possono aprire libri, giornali, quaderni, senza che uno studente sbatta il gomito su quello del compagno che gli siede accanto. E ancora, vorrei classi formate da quindici alunni. E i pomeriggi, quei pomeriggi che i ragazzi passano per lo più da soli a casa ad inseguire messaggi e chat varie su uno schermo, vorrei che li passassero a scuola: a fare sport, attività teatrali e musicali; a parlare con i compagni, studiando con loro, a leggere e discutere di argomenti che li interessano. 

A Casal Bruciato sono nati anche dei laboratori letterari.

«Nonostante i bambini siano meno dei ragazzi, i ragazzi siano meno dei giovani adulti e i giovani adulti siano meno delle persone di mezza età — scrivevo parlando proprio di questa iniziativa — tra i nati dal Novanta in su ci sono eccellenti poeti, scrittori, pittori, musicisti, cuochi, stilisti, designer, narratori, inventori». Come dire che i giovani che innovano non sono soltanto sui social o nei talent garden a costruire droni e App. È nato a Casal Bruciato un laboratorio dove provare a scrivere un sonetto, un romanzo, oppure suonare uno strumento. Su questo, mi piacerebbe ingaggiare degli acceleratori di successo. Pensate se un ragazzino di 15 anni, non importa di quale continente (qualche tempo fa si sono iscritti altri 13 eritrei, minori non accompagnati), mostrasse di avere un talento come scrittore e un Camilleri qualsiasi lo incontrasse una volta al mese per affondare la penna nel suo talento. Registi, scrittori, poeti, musicisti, inventori, fatevi avanti per concretizzare il sogno di chi non avrebbe mai l’opportunità di mostrare i suoi talenti nascosti.

Un proverbio africano molto citato dice che per educare un bambino serve un intero villaggio.

L’intera società civile deve farsi carico dell’educazione dei giovani; le imprese sono parte integrante del sistema scuola. Studio e lavoro vanno a braccetto: teoria e pratica devono riunirsi in un circolo virtuoso che permette di amplificare l’apprendimento e la capacità di realizzare cose. Per far dialogare davvero la Elis con il quartiere abbiamo fatto partire l’iniziativa dell’“ape operaia”; i ragazzi offrono piccoli interventi di manutenzione domestica ai poveri; riparano la tapparella bloccata o il rubinetto che perde. E scoprono la gioia di essere utili, di “saper fare”. Bisogna ricucire pensiero e azione, filosofia e tecnologia, Mens et Manus.

di Silvia Guidi