Esperienze e volti dell’impegno sociale delle persone immigrate in Italia

Volontari inattesi

Il gruppo Emozioni di Francavilla al Mare, dove distribuisce viveri e fornisce assistenza ai più bisognosi
08 luglio 2020

Sono giovani, istruiti e vivono in Italia da molto tempo. Più della metà (55 per cento) fa volontariato a cadenza settimanale,  in media da 6 anni. Preferiscono impegnarsi in attività sociali, culturali, educative e di socializzazione. Sono cattolici, ortodossi, musulmani. Vengono principalmente da Senegal, Perú, Marocco, Romania, Albania e prestano servizio in ambienti dove non esistono differenze tra religioni.

Sono i “volontari inattesi”, persone immigrate che danno un contributo, spesso nascosto, all’associazionismo italiano e al terzo settore.

A far luce per la prima volta su questo fenomeno è stata una ricerca nazionale curata dal sociologo Maurizio Ambrosini, dell’Università di Milano e Deborah Erminio, dell’Università di Genova, contenuta nel volume Volontari inattesi. L’impegno sociale delle persone di origine immigrata (Edizioni Erickson).

L’indagine è stata promossa da Csvnet, l’associazione nazionale che riunisce i Centri di servizio per il volontariato territoriali e realizzata dal Centro studi Medì di Genova.  I centri sono al servizio di tutte le realtà associative, laiche e confessionali, che hanno bisogno di consulenze e aiuto nella promozione del volontariato.

La ricerca è stata condotta tra il 2018 e il  2019 tramite 658 questionari e oltre 100 interviste in 163 città italiane, coinvolgendo migranti di 80 Paesi. Emergono testimonianze interessanti e dati inediti, che sfatano tanti pregiudizi: gli immigrati non sono un peso per la società italiana ma “un capitale di risorse”.

Nella Confederazione nazionale delle Misericordie d’Italia, ad esempio, che riunisce oltre 700 confraternite pari a 670.000 iscritti, di cui oltre 100.000 volontari, negli ultimi anni è cresciuto il numero di quelli di origine immigrata: sono attualmente 1.887 persone, provenienti da 89 Paesi extra-europei. Sono spesso richiedenti asilo che iniziano a svolgere attività di volontariato mentre sono ospitati in un centro di accoglienza e poi proseguono la propria collaborazione tramite il servizio civile. In base alle competenze linguistiche possono prendere parte ai vari servizi delle Confraternite, dai servizi di accompagnamento sociale o sanitario al trasporto sanitario.

I “volontari inattesi” sono persone pienamente inserite nella società che vivono in Italia in media da 15 anni. Il 42 per cento ha acquisito negli anni la cittadinanza italiana, l’11 per cento ne ha fatto richiesta e un ulteriore 23 per cento ha un permesso di soggiorno di lunga durata.

Come Sara, milanese ed egiziana, impegnata contro la violenza sulle donne musulmane. Nata in Italia, arteterapeuta, ha 32 anni e fa volontariato da una quindicina d’anni nell’associazione Progetto Aisha, dove operano sia italiani che giovani di seconda generazione. Quando ha iniziato a fare volontariato, a 17 anni, Sara non sapeva bene perché. Forse aveva solo voglia di «inserirsi in modo intelligente nel tessuto sociale e di andare contro certe idee», ammettendo che la prima ragione era stata quella di cercare «una strada lavorativa». Invece, grazie al volontariato, ha imparato ad essere «più dinamica e meno rigida, più diretta». E, superando la diffidenza che a volte ha avvertito, ad esempio dai pazienti assistiti in ospedale, si è accorta di diventare molto più sicura delle sue competenze, «più incisiva e cosciente del mio diritto di fare volontariato, indipendentemente dalla mia appartenenza. A volte mandando in tilt gli schemi di chi inizialmente mi guardava solo come “una straniera”».

Mohammad Aletaha, invece, è partito da Teheran 32 anni fa. Oggi ha 57 anni e vive a Firenze insieme alla moglie e alla figlia di 28 anni. Lavora in un albergo, ma nel volontariato esprime sé stesso, la sua passione per l’arte e la cultura. Dal 2012 è nell’associazione Biblioteca di pace, che lo coinvolge in due progetti nelle Gallerie degli Uffizi, per creare percorsi di integrazione e incontro tra culture. Insieme ad altri 11 cittadini immigrati hanno raccontato altrettanti capolavori dell’arte custoditi negli Uffizi, intrecciando il loro vissuto con la storia delle opere. «Mi dà una bella sensazione che rimane dentro — racconta — e per me questo è molto importante».

L’età media dei volontari stranieri è di 37 anni, il 50 per cento ha un’età compresa tra i 20 e i 40 anni. Nella maggior parte dei casi hanno alti titoli di studio (36 per cento diplomati e 42 per cento laureati). Come Moussa Sanou, 41 anni, originario del Burkina Faso, vive a Cuneo da 9 anni e aiuta gli altri attraverso la musica e l’arte. Dopo aver girato il mondo come musicista, attore e compositore, si è fermato in Italia e ha sposato Loredana. Con lei ha scelto di condividere anche l’impegno nel volontariato. L’associazione da lui fondata si chiama Mano nella Mano e «offre a chiunque la possibilità di avvicinarsi alla musica e all’arte in modo naturale e fisiologico — spiega — rendendo consapevoli le persone di quanto sia importante per lo sviluppo intellettivo ed emotivo».

I volontari immigrati si concentrano soprattutto in quattro settori: servizi di assistenza sociale, come sportelli di accoglienza ed ascolto, raccolta di distribuzione di vestiario, mensa sociale (179 risposte), promozione del patrimonio culturale, usi, costumi e tradizioni, organizzazione di mostre e visite guidate, ecc. (176); progetti educativi con bambini e ragazzi, ad esempio nel doposcuola o per il sostegno scolastico (173 casi); attività ricreative e di socializzazione, quali feste, eventi, sagre (165).

Anche nelle Caritas diocesane sono tanti i volontari immigrati. Molti assumono ruoli di leadership all’interno di queste realtà, nei centri di ascolto, nei servizi specifici dedicati ai richiedenti asilo e rifugiati. Spesso sono impegnati in attività di mediazione culturale con i propri connazionali, come i tanti giunti in Italia attraverso i corridoi umanitari promossi dalla Chiesa italiana insieme a Comunità di Sant’Egidio, Caritas e Migrantes.

In prima linea nell’assistenza ai poveri, ad esempio, è Carla Bellafante, nata a Chieti 43 anni fa ma una vita intera vissuta in Venezuela. Due anni fa è stata costretta a tornare in Italia, nella città abruzzese di origine. È sposata e mamma di due bambini di 7 e 5 anni. In Venezuela non le mancava niente, era preside di un grande istituto. Per questo suo ruolo ha subito minacce ed un tentativo di sequestro, cui si è aggiunto il progressivo peggioramento delle condizioni di vita del Paese. Costretta a fuggire, ora Carla è una volontaria dell’associazione Emozioni a Francavilla al Mare, che distribuisce viveri, farmaci, vestiario e fornisce assistenza psicologica e aiuto ai ragazzi nello studio.

Tra le motivazioni che spingono le persone immigrate al volontariato c’è anche il bisogno di sentirsi utili e dare il proprio contributo per una giusta causa (23 per cento). Oppure si considera doveroso fare qualcosa per gli altri o per l’ambiente (21 per cento). Molti vogliono aiutare altri immigrati (13 per cento), per altri è solo un’esperienza nuova (14 per cento) o serve a mettere a frutto competenze che non trovano altre occasioni per poter essere espresse (7 per cento). Tanti intendono solo restituire con gratitudine l’aiuto ricevuto in un periodo della propria vita (8 per cento). La ricerca ha però indagato anche gli aspetti negativi che ostacolano l’impegno nella solidarietà. Nel 15 per cento dei casi c’è la scarsa conoscenza delle proposte di volontariato, la poca dimestichezza con la lingua italiana (14 per cento), situazioni di discriminazione e razzismo (11 per cento) o una generale chiusura delle associazioni rispetto a chi è diverso (11 cento).

Conoscere luci e ombre di questo fenomeno può migliorare l’integrazione e costruire una società più coesa e aperta.

di Patrizia Caiffa