· Città del Vaticano ·

LABORATORIO - DOPO LA PANDEMIA
Conversazione con Luca Dal Fabbro, dirigente del primo fondo di private equity italiano sull’economia circolare

Sul Green Deal sarà la natura
a rispondere agli scettici

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08 luglio 2020

Ha da poco lasciato la carica, più che prestigiosa, della presidenza di Snam, la prima utility europea del gas, esponendosi in prima persona in un progetto pionieristico, in cui molto crede: è una scelta non comune, per certi versi audace, quella che porta Luca Dal Fabbro (classe 1966), cursus honorum e studi più che brillanti, con tappa a Bruxelles e Boston, al lancio del primo fondo in Italia, e tra i primi al mondo, dedicato all’economia circolare. D’altra parte la scelta è coerente con la sua ricca esperienza professionale nel mondo dell’energia e dell’energia verde (è stato amministratore delegato in aziende quali Enel Energia, E.on Italia e nel cda di Terna), che lo rendono tra i massimi esperti di transizione energetica e sostenibilità.

Da vice presidente del Circular economy network e co-fondatore dell’Organizzazione per il clima e l’economia circolare a Bruxelles, nel suo percorso torna una costante, quella “verde”. Il Circular value fund è l’ultimo coerente passo. Quale valore aggiunge?

Sarà il primo fondo al mondo che misura e premia i manager, non solo in base ai profitti generati, ma anche rispetto ad un altro indicatore, ovvero il raggiungimento degli obiettivi di circolarità. È importante che sempre più azionisti acquisiscano una visione olistica della generazione del valore, non vincolata esclusivamente ai parametri finanziari, ma anche all’impatto sociale ed ambientale e, a tale valore, si deve giungere attraverso una governance aziendale trasparente e corretta (i cosiddetti fattori Esg). Credo molto in questa sfida, per la quale sto ripartendo da zero, perché sono convinto che sia il momento che anche gli imprenditori siano costruttori dell’equilibrio dell’ecosistema, ridisegnando modelli di business con criteri innovativi e sostenibili. Il successo seguirà, ma soprattutto avremo proposto qualcosa di utile.

Dunque, un imprenditore a cura della casa comune, e non depredatore all’inseguimento del mero profitto?

La portata e la gravità di eventi imprevedibili, generati da un pianeta non più in equilibrio, impongono all’economia mondiale di rivedere gli schemi tradizionali di difesa nazionale, sovranazionale e dello spazio. Abbiamo eserciti che presidiano i confini, truppe cibernetiche a protezione del cyberspace e alcuni paesi con corpi militari speciali per lo spazio: qualcuno sta pensando ad un ente o un’alleanza, una sorta di Nato dell’ambiente, non transatlantica, ma globale a tutela del pianeta, dotata di mezzi, risorse e tecnologie proporzionate alla minaccia da fronteggiare? La sfida intellettuale e culturale imposta dalla palese insostenibilità dei modelli consumistici attuali è impegnativa, ma le soluzioni esistono. Il Green Deal europeo è una opportunità per convertire un’economia sprecona e consumistica in una circolare e rigenerativa, lungo la traiettoria balistica di medio periodo del ripristino progressivo degli equilibri naturali.

Questo richiede uno “switch” culturale che affermi processi non dissipativi, ma rigenerativi, delle risorse.

Dall’illusione di essere i soli ad abitare il pianeta e disporre di risorse illimitate dobbiamo passare alla consapevolezza di convivere interconnessi in un habitat in cui quanto a disposizione si preserva e condivide. L’uomo interconnesso vibra in risonanza con l’ambiente, con madre natura. L’aria, l’acqua, la flora e la fauna ne diventano il suo liquido amniotico. Sostituire la cultura dello scarto, nei riguardi del cibo, o parimenti degli anziani, o degli emarginati, ghettizzati e accantonati in una “discarica sociale”, con quella della salvaguardia e valorizzazione di funzioni e ruoli, sarebbe rivoluzionario.

Dagli arbori della civiltà agricola, nella Mezzaluna fertile di 10.000 anni fa, la popolazione mondiale è aumentata di circa 15.000 volte: da 4 milioni (meno della metà dell’attuale popolazione londinese) a circa 9 miliardi di individui stimati entro il 2050. Oggi due miliardi di persone vivono in condizioni ai limiti della sussistenza, ma si prevede che entro il 2030 alla middle class si aggiungeranno altri tre miliardi di individui. La crescita demografica e dei consumi sta producendo una mole incontrollabile di rifiuti: in un paio di decenni aumenterà del 70 per cento.

Senza una virata drastica l’attuale modo di produrre e consumare è destinato a fallire, come dimostrato dall’insostenibilità della gestione dei rifiuti a livello mondiale, ma, in particolare, nei paesi in via di sviluppo, meno attrezzati ad affrontare sfide immani come la gestione dei rifiuti o delle acque reflue, con 4,5 miliardi di persone prive di servizi sanitari sicuri e l’80 per cento di acque reflue che ritorna nell’ambiente. Per scongiurare un disastro ambientale, occorre porre rimedio subito con ingenti investimenti. Oltre alla crescita esponenziale degli “scarti”, il cambiamento climatico metterà a rischio la copertura nevosa e i ghiacciai, dunque, l’approvvigionamento di acqua dolce. Conseguentemente saremo più esposti alle inondazioni, che comprometteranno qualità e resa della produzione agricola. Le economie più deboli inevitabilmente pagheranno il prezzo maggiore

Il riciclo dei materiali e il recupero energetico catturano solo il 7 per cento del valore originario della materia prima. Anche lo spreco di cibo è un fenomeno globale inesorabilmente in crescita: secondo la Fao, ogni anno, un terzo della produzione mondiale di alimenti (oltre 1,6 miliardi di tonnellate) si perde lungo la filiera, e, a sprecare, sono soprattutto i Paesi sviluppati, responsabili del 56 per cento di questo sperpero. In Italia, per esempio, le 8,8 milioni di tonnellate di cibo buttate ogni anno lungo la filiera, dallo stoccaggio alla distribuzione, valgono 15 miliardi di euro.

Il rapporto curato dal Wrap (Waste & Resources Action Programme) con la Global Commission on the Economy and Climate stima lo spreco alimentare globale in 360 miliardi di euro all’anno e, di questo passo, in 15 anni si toccheranno i 500 miliardi, pari al doppio del pil della Grecia. Tutto ciò è figlio di una cultura che vede il benessere generato dalla crescita illimitata del consumo (il consumo è pil), illimitate le risorse e non vede lo squilibro provocato sull’ecosistema, compresa la scomparsa delle biodiversità vitali all’armonia del creato.

Sprecare cibo significa sprecare acqua e terra (250 mila miliardi di litri e 1,5 di ettari /anno) e contribuire per il 7 per cento alle emissioni di gas serra (3,3 miliardi di tonnellate di CO2/anno) e, quindi, al cambiamento climatico.

Non solo: lo spreco implica risvolti etici intollerabili: pensiamo a chi non ha accesso al cibo e versa in condizioni di vera indigenza. Sul nostro pianeta 800 milioni di persone soffrono la fame, 160 milioni di bambini, a causa della malnutrizione, crescono con ritardi psico-fisici, oltre due miliardi di esseri umani mancano di nutrienti per una dieta inadeguata.

La sostenibilità non ostacola, per altro, il progresso..

Il contrario: pianificare e lavorare per un benessere garantito nel tempo, per più generazioni, a tutte le latitudini e per più specie di esseri viventi evita l’errore fatale di vedere l’interesse dell’uomo indipendente dallo stato di salute di tutto l’ecosistema. Abbiamo risorse economiche, capacità di ricerca e tecnologie per ridefinire il modello di sviluppo, passando dallo schema lineare del consumo “usa e getta”, a quello circolare, del riutilizzo-condivisione-rigenerazione, a patto, però, di riconoscere che lo spreco non è segno di benessere, ma di una presunzione drogata dall’illusione di essere arbitri del destino nostro, del pianeta e di chi lo abita.

Nel dramma della pandemia abbiamo realizzato che il riscaldamento globale, l’inquinamento delle città, la plastica negli oceani hanno un fattore comune: non esistono frontiere, non conoscono confini. Abbiamo scoperto di essere tutti — dalle bidonville sul Gange agli attici di Manhattan, dagli atolli del Pacifico alle piattaforme artiche — inesorabilmente legati ad un destino comune.

L’uomo interconnesso, differentemente dall’homo sapiens, deve fare i conti con il fatto che i fluidi dell’ecosistema, come aria ed acqua, come i virus pandemici, o come gli attacchi informatici nel cyberspace, viaggiano da un capo all’altro dei continenti, senza fermarsi alle frontiere o di fronte alle barriere geografiche di montagne o fiumi. Tutto ciò, se c’era bisogno, ha “magicamente” socializzato il problema, lo ha reso prossimo, rendendoci consapevoli che, nell’era della sharing economy, la medaglia dello sharing globale ha anche un volto negativo e incontrollabile. Ora sul tappeto c’è un problema globale, innescato dal mondo occidentale ed accelerato, ed oggi aggravato da quello in via di sviluppo, all’inseguimento dei nostri standard di vita.

Come intervenire?

In due direzioni: dal basso e dall’alto. Nella direzione top-down ha svolto un ruolo positivo l’accordo di Parigi sul clima, con l’impegno volontario di più di 180 Paesi a intervenire per ridurre le loro emissioni serra. Ma è un errore pensare che questo rappresenti un punto di arrivo nel percorso di contrasto alla minaccia climatica: è un punto di partenza a cui saldare strategie efficaci e concrete a livello locale, e, soprattutto, un salto tecnologico che renda raggiungibili gli obiettivi ambientali fissati.

L’adozione rapida della tecnologia è necessaria, ma basta a catturare l’opportunità circolare?

No, l’economia circolare deve qualificarsi come prossimo grande piano di sviluppo dell’Unione europea: un continente ancora molto dipendente dalle materie prime. In un mondo in rapidissima evoluzione, con molteplici apparati interconnessi, esposto a imprevedibili shock esterni, è più resiliente se retto su modularità, versatilità e adattabilità: queste sono qualità preziose rispetto alla massimizzazione dell’efficienza, che poi si traduce in vulnerabilità. Michael Braungart conferma: «I sistemi naturali supportano l’abbondanza resiliente adattandosi ai loro ambienti con un mix infinito di diversità, uniformità e complessità. La rivoluzione industriale e la globalizzazione si sono concentrate sull’uniformità dei nostri sistemi, spesso, però, instabili. In alternativa, possiamo fabbricare prodotti con lo stesso talento per la resilienza». La nuova finanza deve essere capace di entrare in sintonia con le necessità di mutare il modello di sviluppo da lineare a circolare, e quindi sostenibile, ed il costituendo fondo va con decisione in questa direzione.

Qualcuno potrebbe obiettare che lasciare una strada remunerativa per lanciare un fondo dedicato alla crescita circolare è un’operazione destinata all’insuccesso, perché il consumismo continuerà ad essere vincente.

Sono molto fiducioso e agli scettici rispondo che molto presto saranno madre natura e gli investitori a sciogliere il dilemma.

di Silvia Camisasca