La vocazione alla cura nell’esperienza dei futuri infermieri

Quella luce imprevista al centro del buio

Omar Galliani, «Eurasia n. 5- Mantra» (2007, particolare)
20 luglio 2020

Quando, all’inizio dell’anno accademico, nelle aule del Campus Biomedico ci si trova davanti ai visi degli studenti del primo anno e si cominciano ad osservare le loro espressioni si percepisce, in maniera netta, quella loro emozionante sospensione sulla soglia del futuro: e si comprende altrettanto chiaramente che l’incertezza è superata di gran lunga dalla curiosità, dall’energia e dalla vivacità.

Così si cerca di farsi un’idea su ciascuno di loro, di imprimersi velocemente i loro visi nella mente. E alcune domande sorgono in maniera ricorrente, soprattutto in un corso di laurea in Scienze infermieristiche: cosa li avrà condotti a questa scelta, quali desideri li animano, quali sono le loro attese? In fondo forse il grande interrogativo è se ce la faranno a “reggere” l’impegnativo percorso “emotivo” che gli si profila dinanzi, considerata anche la giovane età ma soprattutto il fatto che di lì a pochi mesi inizieranno la loro esperienza di tirocinio nei reparti e con i pazienti, veri.

Poi, col passare del semestre, le relazioni diventano più intense e le riflessioni sulle motivazioni delle loro scelte prorompono e s’impongono, e ci si accorge che in loro è attivo già uno speciale orientamento «alle profondità e alle pieghe dell’umano», fino alle espressioni più estreme del limite che segna ogni esistenza.

Dar spazio ai loro pensieri è ciò che permette di scoprire quanto anche delle giovani donne e dei giovani uomini possano aver percorso sentieri impervi e da essi essere stati interrogati in modo serio e radicale ma soprattutto generativo. Infatti non di rado si apprende dalle loro narrazioni che diverse sono le esperienze che li hanno messi a contatto con il dolore, la sofferenza, la morte e approfondendo si scopre che sono proprio queste situazioni limite ad aver permesso loro di misurarsi precocemente con la propria “statura” d’essere e di volerne fare un dono, come raccontano pensando ai loro pazienti: «affinché anche loro si rendano conto di quanta luce può esserci nei momenti più bui».

La cosa interessante è che a una certa capacità empatica, raffinata dall’esperienza diretta, si accompagnano spesso un forte senso di realismo e una lucida consapevolezza: «Così decisi di dedicarmi non alla nascita della vita ma alla “compagnia” nel momento del bisogno, a passeggiare a volte anche verso il tramontare della vita». Colpisce il riferimento al termine compagnia, concetto usato da papa Francesco quando, già all’inizio del suo pontificato, esortava la Chiesa a far compagnia alle persone, camminando con loro e con le loro storie ed andando così «al di là del semplice ascolto».

Allo stesso tempo gli studenti affermano anche che aiutare gli altri «è proprio ciò che può placare la nostra sete». Parlano chiaramente di una sete di senso che accomuna tutti i ragazzi della loro età. Ciò che viene in evidenza è l’approdo a cui sono giunti attraverso la loro ricerca. Il senso che reclamano con decisione si associa a una intuizione molto netta: cioè che esso si realizzi non nell’affermazione individualistica di un ipseità autocentrata ma nell’apertura generosa e donativa all’alterità, tanto più se segnata dal dolore e dalla sofferenza. E questo è possibile anche se si hanno solo diciannove anni. Anzi, forse ciò che si intravede in questi studenti è che l’energia prorompente della loro giovane età spesso anela a radicamenti esistenziali più sensati di quanto di possa immaginare.

E lo si riscontra anche in un secondo elemento presente in molte delle loro storie: il coraggio passionale e gioioso con cui questi giovani hanno scelto il loro percorso, che s’inanella e s’intreccia in modo forte con le loro esperienze di vita.

«Sentivo un richiamo dentro di me, come toccavo alcuni oggetti mi vedevo già nel futuro a fare qualcosa di grande, non soltanto per me, bensì per gli altri. La vedevo come una sfida, difficile ma non impossibile. Volere è potere del resto e in nome di questa frase ho scandito ogni minuto della mia vita. Quel giorno, in disparte, mi misi a piangere. Non ho mai capito se si trattava di lacrime di gioia o di lacrime “premonitrici”. Le chiamo così perché da quel momento, da quel preciso pomeriggio assolato, imparai a conoscere la morte, la sofferenza umana. La sensazione che provo, ogni volta che posso aiutare qualcuno, è impagabile. Sento il mio cuore leggero, la mia anima soddisfatta e soprattutto la mia persona “al suo posto”».

Questo a riprova del fatto che in molti di essi è forte questo “risveglio alla vita” a cui papa Francesco li esorta spesso con amorevole premura: «Cari giovani, non lasciatevi rubare questa sensibilità! Possiate sempre ascoltare il gemito di chi soffre; lasciarvi commuovere da coloro che piangono e muoiono nel mondo di oggi. Certe realtà si vedono soltanto con gli occhi puliti dalle lacrime». In un certo senso le parole del papa appaiono un po’ come il tracciato in cui si incardinano i desideri di questi ragazzi.

di Raffaella Cristaldi Esposito