A colloquio con padre Gianfranco Graziola, missionario nelle carceri del Brasile

La vera pandemia è l’indifferenza

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28 luglio 2020

«È un grosso sbaglio pensare che rinchiudendo in carcere un individuo si possano risolvere i problemi della società. All’interno delle prigioni l’essere umano non è più padrone di se stesso; i penitenziari svuotano le persone riducendole a nullità, diventando solo luoghi di punizione e di controllo, soprattutto dei più poveri e dei giovani delle periferie»: ne è fermamente convinto padre Gianfranco Graziola, missionario della Consolata da vent’anni in Brasile, direttore-presidente dell’Associação de Apoio e Acompanhamento (Asaac) in seno alla pastorale carceraria nazionale brasiliana che, all’«Osservatore Romano», racconta le difficili condizioni dei detenuti e delle detenute in questo particolare momento di emergenza sanitaria caratterizzata dalla pandemia da covid-19, la quale ha provocato oltre 2.442.000 contagi e più di 87.600 morti. «Dobbiamo far fronte comune — spiega — per impedire che si crei malcontento tra la popolazione che, oltre ad avere paura del coronavirus, rischia di morire di fame. La Chiesa sta facendo tutto il possibile per aiutare, ma da sola non basta. Occorre coinvolgere le istituzioni».

Qual è il vostro impegno per un carcere dal volto umano?

La pastorale carceraria in Brasile è totalmente differente da altre esperienze nel mondo, in particolare rispetto a Europa, Stati Uniti d’America, Asia e Oceania e alla stessa America latina dove opera il cappellano penitenziario, figura inesistente da noi. Qui, la pastorale carceraria è realizzata dal Popolo di Dio, laici e laiche, consacrati e consacrate, religiosi e religiose, sacerdoti e vescovi che settimanalmente, quindicinalmente o mensilmente visitano i penitenziari nei ventisette stati del Brasile e nel distretto federale dove si trova la capitale Brasília. Esiste un coordinamento nazionale che a sua volta si ramifica a livello statale, regionale e diocesano. Il grande sviluppo della pastorale carceraria nella sua forma attuale è iniziato con la Campagna di fraternità del 1997 il cui tema era: “Fraternità e i carcerati” e lo slogan “Cristo libera da tutte le prigioni”. Ma c’è un altro evento il “Massacro di Carandiru” nel quale, il 2 ottobre 1992, 111 reclusi nell’allora istituto penitenziario furono crudelmente uccisi dalla polizia militare. Oggi, in questo luogo, bagnato dal sangue di tanti fratelli, sorge il parco della gioventù intitolato al compianto cardinale Paulo Evaristo Arns. La pastorale carceraria in Brasile ha come principio di fondo e sua meta la costruzione di un “Mondo senza carcere” rifacendosi al discorso di Gesù nella sinagoga di Nazareth (Luca 4, 18-19) e alla lettera di San Paolo ai Galati 5, 1. La stessa enciclica Laudato si’ viene a rafforzare ulteriormente questa nostra convinzione quando afferma la necessità di una conversione ecologica integrale.

Qual è il vostro rapporto com le famiglie dei detenuti?

La quotidianità della pastorale carceraria è la visita ai nostri fratelli e sorelle in prigione mettendo in pratica il Vangelo: «Ero in carcere e siete venuti a visitarmi» (Matteo 25, 36). Per questo gli agenti della pastorale quando entrano in carcere vanno a incontrare Gesù e si mettono al suo ascolto per cogliere la presenza misericordiosa di Dio. La crescita a dismisura in questi ultimi decenni delle detenute (700 per cento) ha fatto nascere nell’ambito della pastorale il dipartimento della “Donna incarcerata” che oggi ha una coordinatrice nazionale. La celebrazione nel 2017 dei 300 anni del ritrovamento dell’immagine della Madonna nel fiume Paraiba, a nord dello stato di San Paolo, da qui il nome di “Aparecida”, ci ha ispirati a celebrare questo giubileo pensando a “Maria e alle Marie in carcere”, non solamente alle recluse, ma a tutte le madri, spose, figlie, sorelle che settimanalmente si mettono in fila davanti alle prigioni portando con loro lo stigma di una società diseguale e selettiva. Ne è nata una nuova dimensione della pastorale carceraria che è una relazione con le famiglie dei detenuti e delle detenute che contribuisce alla loro organizzazione in associazioni, coinvolgendole e rendendole protagoniste del progetto “Mondo senza carcere”.

Cosa fate nello specifico?

Le pastorali che si ispirano alla Dottrina sociale della Chiesa, e che nel Brasile sono raggruppate nella Commissione episcopale pastorale per l’azione socio-trasformatrice, devono contribuire, a partire dal Vangelo, a una trasformazione effettiva della società costruendo quella che san Paolo VI chiamava “Civiltà dell’amore”. Coscienti, come diceva Montini, che l’annuncio della Buona novella va di pari passo con la promozione umana, non possiamo non occuparci di politica, di bene comune, l’espressione più alta della carità, combattendo le cause che portano alla detenzione di massa come avviene per gli spacciatori e i consumatori di droga. Per questa ragione dal 2013, assieme a organizzazioni della società civile, abbiamo individuato alcuni punti, definiti “i dieci comandamenti della pastorale carceraria”, che abbiamo inserito nella Agenda pelo desencaramento, “agenda per la scarcerazione”.

Quali sono i punti centrali?

Il documento abbraccia i temi cruciali del sistema carcerario e avanza alcune richieste come la sospensione di fondi destinati alla costruzione di nuove unità; la riduzione della popolazione carceraria e della violenza prodotta negli istituti di pena; modifiche alla legge per limitare il carcere preventivo; il cambiamento della politica di lotta alla droga; snellimento del sistema penale; apertura a meccanismi di controllo sociale; divieto di privatizzazione del sistema; prevenzione e lotta contro la tortura; smilitarizzazione.

Come viene percepita la vostra attività all’interno degli istituti di pena?

Oggi la pastorale carceraria gode della fiducia sia dei detenuti sia delle loro famiglie, e ha una credibilità che si è costruita nel tempo anche nel campo strettamente giuridico e tecnico. Ciò fa sì che venga rispettata dalle istituzioni e dalle numerose organizzazioni civili e non governative che seguono le questioni penali. Noi denunciamo costantemente il sovraffollamento, frutto di un processo di carcerazione di massa che vìola la costituzione e la burocrazia del settore. Infatti, nelle prigioni brasiliane abbiamo un buon 40 per cento di detenuti/e, e in alcuni stati come l’Amazonas addirittura il 60 per cento, che sono “provvisori”, cioè non sono stati ancora ascoltati da un giudice o sono in attesa di condanna definitiva.

Di recente migliaia di detenuti sono stati liberati per paura che il coronavirus si diffonda ulteriormente. Non pensa che in questo modo possa aumentare la violenza nel Paese?

La realtà carceraria in Brasile è pessima: mancano servizi basilari come l’assistenza medica, il rispetto delle norme igieniche, un’alimentazione sana, la manutenzione degli edifici. Per esempio, visitando un istituto la cui capienza era di 140 persone, vi erano 1400 detenuti, molti dei quali avrebbero dovuto essere soltanto oggetto di politiche sociali.

Secondo lei, in epoca di pandemia è necessario che intervenga la politica a determinare norme ad hoc, in linea con le attuali circostanze emergenziali?

Per sanare questa realtà e rispondere alle gravi questioni sociali i Governi pensano di risolvere i problemi affidando ai privati la gestione del sistema penale. Noi non vogliamo assistere ai massacri all’interno delle prigioni come è avvenuto a Manaus nel 2017 e nel 2019. La pastorale e altre organizzazioni continuano a denunciare lo sfruttamento e la commercializzazione di un sistema carcerario sempre più crudele e inumano.

Il Brasile è il secondo Paese più colpito al mondo da covid-19: c’è qualcuno che pensa ai detenuti e alle famiglie?

In realtà il sistema carcerario vive costantemente varie forme di pandemia. L’ultimo esempio lo troviamo a Boa Vista, nello stato di Roraima, dove nella Penitenziaria agricola di Monte Cristo dal 2019 si registra un’epidemia di scabbia. Solo la denuncia dei familiari, sostenuti dalla pastorale carceraria, è riuscita ad evitare un numero elevato di morti che purtroppo anche in questa occasione non sono mancati. In questi mesi, oltre alla preoccupazione per l’arrivo del covid-19 nelle carceri brasiliane e l’elevato numero di contagi e di vittime, quello che preoccupa noi e le famiglie dei detenuti è l’ambiente insalubre, le condizioni alimentari e sanitarie e l’impossibilità di fare visita ai detenuti. Da mesi, migliaia di famiglie non hanno notizie dei loro cari. Per questa ragione, il difensore civico, alcune organizzazioni della società civile e la pastorale carceraria hanno chiesto l’installazione di telefoni pubblici all’interno delle unità carcerarie.

Papa Francesco in diverse occasioni ha ribadito che quello del sovraffollamento è un problema che riguarda varie parti del mondo. Il Brasile è sicuramente un Paese a rischio?.

La scarcerazione di alcune centinaia di carcerati e carcerate avvenuta di recente è stata bollata dalla stampa come un serio pericolo. La realtà però è ben diversa. Il virus sta provocando migliaia di vittime. La violenza nella società non è provocata dalla scarcerazione dei detenuti, ma da altri fattori. Questo ci induce a pensare che la vera pandemia non è altro che l’indifferenza denunciata più volte dal Pontefice.

Di recente è stato inviato a tutti gli operatori carcerari un sondaggio on- line anonimo sulla situazione delle donne e in particolare delle mamme detenute con i loro figli. Cosa pensa al riguardo?

Un capitolo importante della situazione attuale è la realtà del mondo femminile in carcere che soffre doppiamente. Visito settimanalmente il più grande penitenziario femminile del Brasile con oltre 2.000 detenute, a San Paolo, e dai dialoghi e dall’ascolto avverto sempre una grande preoccupazione per i figli. A moltissime madri, rinchiuse in cella, viene impedito di abbracciare il proprio bambino. Al momento, le leggi permettono gli arresti domiciliari solo alle gestanti e alle madri con figli fino a 12 anni. Riteniamo che la scarcerazione sia la strada giusta per creare una nuova società perché, chi meglio di una madre può educare i propri figli? Forse, più che giudicare e condannare siamo chiamati a lavorare per creare politiche pubbliche che diano alle donne l’opportunità di rifarsi una nuova vita.

Parlando di detenzione lei fa riferimento alla Laudato si’. Perché?

La questione carceraria è una pandemia anteriore al covid-19 che la rende ancora più attuale e richiama la nostra attenzione. Occorrono politiche pubbliche serie per poter superare e curare la pandemia che è rappresentata dal carcere. Dobbiamo lavorare per un “Mondo senza carcere”. Come ricorda il Papa nella sua enciclica dobbiamo impegnarci per un’ecologia integrale, custodendo la casa comune per il “buon vivere” di tutti.

di Francesco Ricupero