Una storia di salvataggio nel Mediterraneo

La rivoluzione della comunità

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08 luglio 2020

«“Accendi la televisione, subito! Guarda cosa ha fatto, guarda!”. Non ricordo esattamente chi me lo abbia urlato al telefono con tutta quell’emozione. Se prima Maso o Erasmo o Mattia. Ma ricordo esattamente cosa ho provato quando ho visto l’immagine di quella croce esposta all’ingresso del Palazzo apostolico, in Vaticano. La nostra croce, costruita da Maso con la resina e poi vestita col giubbotto salvagente che abbiamo ritrovato il 3 luglio in mezzo al Mediterraneo. Quel giubbotto a cui bisognava dare un significato, che è stata la prima cosa che abbiamo incontrato in quel mare, che ci ha ricordato cosa dovessimo fare, in tutti i giorni seguenti, che ci ha indicato la rotta, che abbiamo portato a terra con noi. Papa Francesco ne sta parlando, sta parlando di noi, sta parlando, attraverso di noi, di una storia che racchiude tutte le storie: “La croce — dice il Papa — è trasparente, ed esorta a guardare con maggiore attenzione e a cercare sempre la verità”».

Così Alessandra Sciurba chiude Salvarsi insieme (Ponte alle Grazie 2020), diario di un salvataggio compiuto dalla barca a vela Alex, una delle due imbarcazioni di Mediterranea Saving Humans, ong nata nel 2018 per soccorrere i migranti lungo la rotta libica.

Quella che scrive Sciurba — attivista, ricercatrice, operatrice socio-legale e presidente di Mediterranea — è la «storia di una barca a vela sulla rotta dell’umanità» (come recita il sottotitolo), testimonianza diretta, appassionata e, soprattutto, necessaria.

Una storia che si svolge nel luglio del 2019 — nel periodo di maggiore criminalizzazione del salvataggio in mare — quando Alex soccorre 59 persone in un tratto del Mediterraneo controllato dalla Libia. Gli undici membri dell’equipaggio sfidano dunque il divieto di solidarietà e la proclamata chiusura dei porti italiani per portare al sicuro decine di donne, bambini e uomini in fuga da bombe, fame e torture. Sciurba ci racconta il salvataggio dalla prospettiva di chi l’ha voluto e vissuto, invitandoci all’ascolto di una realtà che ci coinvolge tutti.

Se bombe, fame e torture non sono una novità, lo è invece — come stanno raccontando da tempo (con profondità e intelligenza) donne e uomini, giornalisti, scrittori e attivisti — la trasformazione dei salvataggi in mare da atti umani e solidali a gesti criminali. È esistito infatti un tempo in cui «il tratto di mare in cui ci troviamo era pieno di navi: una flotta civile e militare, coi centri di coordinamento marittimo di soccorso di diversi Paesi europei che dirigevano anche le imbarcazioni delle organizzazioni non governative. Perché l’obiettivo era unico: salvare il più possibile, salvare tutti. Ora, invece, questo mare-cimitero è anche un deserto. Neppure i pescatori lo attraversano più per paura di essere abbordati dai libici — prosegue Sciurba — e soprattutto per non ritrovarsi davanti al dilemma terribile tra soccorrere dei naufraghi e affrontare le conseguenze per averlo fatto: perché invece che medaglie, in questo mondo capovolto, rischiano settimane di sequestro della barca, senza potere lavorare, persino pene severe, processi infiniti».

Il diario dalla Alex si apre con pagine degne di un romanziere o di un regista delle migliori trame di azione, invece è tutto drammaticamente vero: Alarm Phone (il telefono che rilancia gli sos dei migranti alla deriva in mare) avverte che un’imbarcazione di gomma blu sta chiedendo aiuto. Il tempo è prezioso non solo per l’estremo pericolo che vivono le persone a bordo, ma perché si tratta di arrivare prima dei libici, che le riporteranno all’inferno. «“Più veloce, più veloce, ecco, ci siamo”. Ora si distinguono le teste, tantissime teste, una sagoma unica e frastagliata. Quanti sono? Decine, almeno cinquanta persone. Ascoltate, si sente anche un pianto di bambino, acuto, altissimo che spezza il silenzio del deserto e sembra increspare l’acqua intorno».

Sono forse questi i particolari del diario che, ancora una volta, colpiscono come un pugno. Il fatto che situazioni e racconti estremi — e quindi per definizione lontani — siano fatti anche di scene e immagini a noi così familiari, come il pianto di un neonato, una donna che allatta, le mestruazioni, domande di routine («“Come ti senti?”. Sono spiazzati dalla domanda. Forse sono anni che nessuno glielo chiede»).

È la leva che aveva fatto scattare la commozione generale (e, anche qui, sembra passato ormai un secolo) davanti alla fotografia del corpo senza vita del piccolo Alan Kurdi riverso sulla spiaggia turca di Bodrum: quell’immagine «non poteva essere accolta nel luogo comune sulle migrazioni — scrive Sciurba — perché non assomiglia a nessuno dei corpi neri rigonfi d’acqua che ci eravamo abituati a vedere affollare il Mediterraneo di silenzio». Invece «tutti abbiamo saputo, sin dal primo sguardo posato su quella fotografia, che Alan era una delle centinaia di migliaia di persone che compongono il cosiddetto “fenomeno migratorio”, quello narrato come un’invasione e un assalto da arginare».

Tra una riflessione e l’altra, i naufraghi sono finalmente in salvo sulla Alex, ed è qui che Sciurba nota che tutti — uomini, donne, donne incinte e bambini — sono numerati. «Un pennarello sui vestiti ha tracciato il numero stabilito per ognuna di queste persone. (…) Come merci, come animali», come in un ennesimo campo di concentramento.

Far salire a bordo è, però, solo il primo passo. Ora occorre individuare un porto per farli scendere, trovare una terra che li accolga, che restituisca loro umanità. È appena iniziata la salita, che Mediterranea Saving Humans (come le altre ong del mare) tenta di scalare puntellandosi sul diritto, «perché è un buon diritto, quello del mare», e proprio per questo continuamente violato, tradito, aggirato. Inizia il dialogo vergognoso con le autorità. «Povero Paese che ha paura di chi fugge e chiede solo protezione», commenta Sciurba, ben consapevole della percezione diffusa sul lavoro che le ong vanno facendo: come sempre nella storia, infatti, «non vali niente se difendi chi non vale niente agli occhi del mondo».

Intanto però a bordo è nata una comunità. A bordo di un’imbarcazione di soli 18 metri, settanta persone — non numeri, ricordiamolo, ma donne, uomini, bambini, neonati e nascituri — diventano una comunità capace di salvarsi insieme. Sono, insieme, protagonisti di una storia di vita e di amore che non vuole cedere alle paure e ai muri; una storia che incarna uno dei temi fondamentali del nostro tempo, smascherandone le strumentalizzazioni e raccontando nel dettaglio le politiche e le violazioni dei diritti umani che hanno reso il Mediterraneo quel cimitero e deserto che oggi è.

«La vita sta da una parte, la morte dall’altra — scrive Sciurba — L’umanità può ancora scegliere. Le navi della società civile, e a volte anche le barche a vela, le indicano la strada». Comunità non è una parola vuota, buonista. Comunità significa che «tutto ciò che ho intorno mi sta curando, e curarsi degli altri e lasciarsi curare» sono «la stessa cosa».

La definizione corretta per quel che (come le altre) Mediterranea è — e fa — sarebbe quella di ong, organizzazione non governativa. Ma forse dovremmo classificarla come «una ang: un’Azione non governativa di obbedienza civile. (…) abbiamo spiazzato tutti con una verità semplicissima: è rivoluzionario oggi tenere fede ai principi della nostra Costituzione e dei diritti umani». E del Vangelo.

di Giulia Galeotti